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Schmeisser (Kurzfassung) da Luca Mannurita blog

Der zweite Teil


A questo non era preparata.

Era una villa dalle dimensioni impressionanti.

Le pareti erano del color della crema e il tetto era nero d'ardesia, cosparso di cento comignoli. Le finestre erano tutte alte e decorate con archi e timpani, alcune avevano terrazzi fioriti. Era circondata da un giardino così grande da digradare assecondando la pendenza della collina in cima alla quale lo smisurato edificio era stato costruito. Ma soprattutto a colpire l'attenzione di Veruska fu che la villa aveva almeno tre piani ed era molto, molto estesa. Abbagliata dal lusso sfrenato Veruska a stento si rese conto di dover scendere dalla macchina. Passò sotto gli occhi critici e severi dell'autista in divisa che teneva lo sportello aperto per lei, ma se ne rese conto appena. Era come entrare in una bomboniera gigante. Era tutto molto bello: dalla ghiaia chiara che le scricchiolava sotto le suole alle siepi tosate con geometrica, maniacale attenzione, alla pietra pallida che costituiva la grande scalinata curva che portava all'ingresso principale. La villa non incombeva opprimente ma anzi sembrava invitasse all'esplorazione. Chissà cos'altro mi attende, pensò costringendosi a prestare attenzione agli scalini.

Sulla soglia dell'atrio, visibile attraverso uno dei due battenti della massiccia porta di legno e ferro schiusa di poco, l'attendeva una delle donne più asciutte e severe che avesse mai visto. Doveva essere la signora Besen.

I capelli grigi raccolti sulla nuca in una crocchia perfetta, la faccia rugosa che sembrava non aver mai sorriso in vita sua, gli occhi duri come due sfere di metallo scuro: frau Besen sembrava attendere qualcuno da rimproverare e Veruska si sentì certa che quel qualcuno era lei.

- Veruska Meinhertz, recentemente diplomatasi domestica... buone referenze, ma davvero risicate. Ventun anni, mezza russa da parte di madre... se crede che i suoi occhi azzurri, i capelli biondi e il nome esotico possano contare qualcosa al servizio di Lord Schmeisser, ha sbagliato i suoi conti.

Purtroppo era con lei che avrebbe dovuto lavorare oltre che con l'altro spocchioso maggiordomo, il signor Hirsch, che occhieggiava alle spalle della signora Besen.

- Vedremo di cosa sarà capace, fräulein.

Ciò detto si voltò e sparì nella penombra.

Veruska la seguì, il cuore che le martellava nel petto per l'emozione.


Forse dopotutto frau Besen aveva avuto ragione.

Erano passate tre settimane e la vita a Villa Schmeisser si era rivelata tutt'altro che entusiasmante.

Le due cameriere con cui aveva cominciato a lavorare da subito, Inga e Karin, si erano rivelate presto due scansafatiche. Dal momento che piegare la testa e subire non era nell'indole di Veruska, il momento del conflitto era giunto inevitabile. Inga, la più velenosa delle due, da villana quale s'era subito dimostrata era passata dal bisticciare a parole al muovere le mani. L'aveva anche minacciata con un coltello a scatto, sbucato da chissà dove. Spaventata, Veruska era corsa dal signor Hirsch con in mano i due pezzi della lama di cui era avventurosamente riuscita a scoprire il nascondiglio. L'aveva spezzata sotto il tacco. L'aggressiva cameriera era stata licenziata in tronco e scortata fino in città. Non ne aveva saputo più nulla.

Purtroppo l'unico risultato pratico era che da quel giorno si era trovata costretta a lavorare spalla a spalla con una nemica giurata, Karin, e la medesima quantità di lavoro da suddividere in due anziché tre.

Arrivava alla sera così stanca da non avere la forza nemmeno di leggere il libro che suo padre le aveva regalato per il viaggio. Si alzava la mattina alle prime luci dell'alba. Spesso terminava gli ultimi lavori alla luce delle lampade elettriche che erano installate perfino nell'alloggio della servitù.

In tre settimane non era riuscita a vedere tutte le stanze della villa, a visitare per intero il parco che la circondava né ad andare almeno una volta in città.


Quella mattina nere nubi si erano rincorse nel cielo e un freddo vento teso aveva sferzato la cima della collina facendo sbattere le imposte di tutta Villa Schmeisser. Veruska temette il temporale, la mancanza di corrente e il buio. Il temporale ci fu e con esso un violento acquazzone, ma solo nel pomeriggio. Per l'ora di cena era già tutto finito e la fresca serata era sì umida, ma così bella e silenziosa che Veruska decise di fare quattro passi fuori prima di andare a coricarsi. Per non fare incontri sgraditi uscì da una delle porte di servizio e si limitò a pochi passi lungo la parete esterna della villa. Se ne stette lì a respirare l'aria fresca profumata di terra bagnata, a guardare le nuvole buie che mostravano ampi strappi stellati e, per osservarle meglio, si scelse un punto dove le lampade che rischiaravano il giardino stentavano ad arrivare con la loro luce tenue.

Proprio mentre fantasticava a naso all'insù sulla fetta di cielo nero trapunto di stelle visibile in quel momento, le luci da giardino tentennarono, minacciarono di spegnersi un paio di volte per poi tornare a brillare. Lontano si udirono gemiti elettrici e tonfi meccanici, macchinari pesanti che venivano avviati. Aveva già sentito rumori come quelli una volta uscita dalla stazione ferroviaria di Kräaftenburg. Le sembravano trascorsi cento anni.

Tese l'orecchio: non si sentiva più nulla. Stette in ascolto fino a dubitare d'aver udito davvero qualcosa. Perfino il ricordo d'aver visto le luci tremolare per un attimo si stava già sbiadendo. Si stropicciò gli occhi e sbadigliò compostamente com'era stata educata a fare sempre, anche trovandosi da sola. Ancora rumori meccanici, ma non così lontani: la città era troppo distante e a quell'ora erano ben poche le fabbriche attive. La fonte del rumore era decisamente più vicina.

Veruska, con la pelle accapponata e un po' d'ansia che le gravava lievemente sul cuore, rientrò e si coricò.


- Eccomi, signor Hirsch.

La mano del maggiordomo si fermò sopra il campanello e si ritrasse dopo un istante di incertezza. Come se suonarlo nonostante lei fosse giunta in tempo fornisse una scusa valida per poterla rimproverare.

- Molto bene, Veruska.

Il maggiordomo assunse un'aria più spocchiosa del solito e si impettì come se ciò che stesse per dire richiedesse qualche centimetro di statura in più.

- Ti informo che sono attesi ospiti: li accoglierai e li farai accomodare nella biblioteca piccola. Ti manterrai a disposizione finché non saranno congedati.

Il signor Hirsch concluse aprendo la porta del suo piccolo studio. Con una rapida riverenza si congedò e fece esattamente ciò che il maggiordomo si aspettava da lei: corse a controllare che la biblioteca piccola fosse in perfetto ordine e che altrettanto valesse del percorso che andava da lì all'ingresso. Tutto ciò che sarebbe potuto cadere sotto gli occhi degli ospiti fu scrutato con attenzione, spolverato e lucidato. Veruska aveva appena finito quando suonarono all'ingresso principale.

Guten Morgen, fräulein.

Di fronte a lei c'erano due uomini. Quello che aveva salutato teneva la bombetta sollevata dalla testa con una mano guantata, l'altro la teneva all'altezza del ventre e si limitò a un cenno del capo.

Nel tempo di una misurata riverenza Veruska li squadrò entrambi. Vestivano con pastrani grigio piombo molto simili se non addirittura identici e avevano l'aria di essere poliziotti. Uno portava la barba nera impomatata e appuntita sul mento mentre le guance erano rasate alla perfezione. L'altro ostentava una capigliatura color del legno di noce, folta e ben pettinata, mentre il viso era ornato da baffi neri lunghi fino al mento. Sembravano tutti e due oltre la trentina ma lontani dalla piena maturità maschile che lei, come sua madre le aveva inculcato, poneva a cavallo dei quaranta anni.

- Vogliate seguirmi, meine Herren.

Seguendo alla lettera le indicazioni avute Veruska li condusse nella biblioteca piccola e li fece accomodare. Si offrì di custodire i loro soprabiti nel guardaroba, ma entrambi rifiutarono cortesemente.

- Sarà questione di poco, non ci tratterremo – disse quello con la barba mefistofelica, la bombetta in mano.

Veruska si congedò da loro accennando una riverenza e si chiuse la porta alle spalle.

Il suo cuore perse un colpo.

C'era una persona che risaliva il corridoio procedendo spedito verso di lei. Una persona mai vista prima. Fu colpita dai capelli chiari tagliati a spazzola che incorniciavano un viso cupo dai lineamenti forti e squadrati. Gli occhi erano sottolineati dalle vistose borse di chi trascura il sonno e la salute per lo studio o per il lavoro. Anche la barba che ornava quel viso era chiara, molto fitta e mantenuta corta. L'uomo era nel fiore della gioventù e si muoveva grazie a una curiosa sedia a rotelle ronzante.

Le gambe, nonostante fossero celate da una coperta di lana, erano palesemente amputate sotto il ginocchio.

Mentre gli occhi di Veruska non riuscirono a staccarsi per un solo istante da quell'apparizione, lui non la degnò di uno sguardo. L'uomo aprì la porta della biblioteca piccola e vi entrò deciso.

Rimase imbambolata per qualche secondo, col cuore che faceva le capriole. Eric Schmeisser! Non poteva essere altrimenti! Nessuno le aveva mai detto nulla di lui ma la somiglianza con gli antenati i cui ritratti occhieggiavano severi in molte stanze della villa era innegabile.

Udì voci alle sue spalle. La porta della biblioteca non era chiusa bene e il tono della conversazione si era già alzato. Si riscosse: origliare il padrone di casa era motivo valido per il licenziamento.

Ma l'immagine di Eric Schmeisser non voleva uscirle dalla mente. Un'anima tormentata, una spugna gonfia di dolore. Ecco cosa aveva visto per pochi istanti. Non poteva certo far finta di nulla! Era suo dovere alleviare le sofferenze di quell'uomo, almeno quelle fisiche! Che razza di domestica potrò mai essere altrimenti, si chiese.

Veruska corse nella stanza adiacente e lasciò la porta aperta. Si acquattò contro la parete in modo da poter sentire senza essere vista da qualcuno che si trovasse a passare lungo il corridoio.

Non capiva nulla di quello che le arrivava alle orecchie: perfino la porta era imbottita per non trasmettere suoni attraverso il legno. Tese ancor di più l'orecchio cercando di catturare le parole che fuggivano proprio dalla porta dimenticata accostata. Il tono della conversazione rasentava il litigio. “Progetto”, “lavoro”, “fornitura” erano le parole pronunciate più di frequente, insieme a una gran quantità di negazioni. “No” e “non posso” erano forse quelle pronunciate dal giovane Schmeisser, una voce forte ma incrinata. Poi un improvviso scambio di battute troppo ruvido per essere un cortese e formale arrivederci, ma altrettanto breve. Veruska sentì la sedia a rotelle con le sue strane ruote disposte a triangolo ronzare nel corridoio e allontanarsi rapidamente.

Si decise ad abbandonare il suo nascondiglio appena in tempo: i due ospiti emersero dalla biblioteca. Rossi in viso, si fecero accompagnare in silenzio fino all'uscita. Ricambiarono a stento i saluti e, guadagnata la loro vettura nera che li attendeva ai piedi della gradinata, se ne andarono.


Quella settimana proseguì ricca di avvenimenti. Il giorno seguente, un martedì, si presentò alla porta la nuova cameriera. Maria: un'immigrata italiana che a parte qualche piccolo problema di pronuncia e una fastidiosa venerazione per la Beata Vergine e San Gennaro si mostrò subito un valido elemento. Piccoletta, pettoruta e robusta non si spaventava di fronte ai lavori pesanti mettendo in cattiva luce l'altra rancorosa cameriera, Karin. Maria si guadagnò le simpatie di Veruska quando affrontata Karin a muso duro il giovedì seguente, gliene disse quattro digradando da un tedesco un po' incerto all'italiano e finendo col napoletano stretto, incomprensibile ma ugualmente efficace. Karin abbassò la testa e cominciò a lavorare al punto che il signor Hirsch notò la differenza.

Il venerdì Veruska lo trascorse dividendosi faticosamente tra i suoi doveri e la perlustrazione della villa alla vana ricerca di una traccia qualsiasi di Eric Schmeisser. Venne meno la corrente elettrica dopo cena, ma fu solo per pochissimi minuti.

Domenica la servitù fu lasciata in libertà.

Veruska si sentiva troppo stanca per andare in città: prese il suo libro e si addentrò un poco nella prima parte del parco, quella più curata dai giardinieri.

Qui le siepi erano potate con geometrica maestria, le aiuole curate e fiorite, le statue delle fontanelle erano pulite e candide. Perfino i pesci rossi nelle vasche sembravano passarsela molto bene: pasciuti e vivaci, giocavano a rincorrersi guizzando di tanto in tanto in superfice.

Veruska si recò nel labirinto di basse siepi e si dedicò al suo libro lasciandosi andare all'immaginazione e a dolci fantasie.

Passi pesanti sulla ghiaia la riportarono in fretta alla realtà.

- Perdonate, magistra...

Jean, il capo dei giardinieri. Un uomo robusto, bruno come il cuoio, con una zazzera di capelli grigi e bianchi che sfuggiva da sotto il berretto verde bosco. Come sempre indossava i pantaloni da lavoro, la pettorina ben stretta con le tasche sformate dal peso degli attrezzi. In una mano teneva un candido ombrello parasole, nell'altra la pesante pietra forata atta a sostenerlo.

- Ho pensato che forse avreste gradito un po' d'ombra di tanto in tanto.

Veruska sorrise all'anziano giardiniere che la trattava con ancor più deferenza del solito. Quel titolo, poi! Dove l'aveva pescato?

- Non sono magistra di nessuno, Jean. Metta pure l'ombrello dove crede, mi sposterò io.

- Ma certo, signora.

In un battibaleno l'ombrellone fu posizionato e aperto in modo da offrire ombra fino a metà della panchina.

- Non vorrebbe sedersi un minuto, Jean? - l'uomo si bloccò lì dove le parole di Veruska l'avevano colto: già incamminato verso un nuovo lavoro.

- Dopotutto è un giorno di riposo oggi, no? È domenica – lo incoraggiò vedendolo titubante.

Jean si accomodò, goffo come un orso, a rispettosa distanza da lei.

Cercò di mettere il vecchio operaio a suo agio complimentandosi con lui per come il parco e i giardini di Villa Schmeisser erano tenuti, facendogli domande che lo invogliarono a chiacchierare di piante e fiori. Jean pian piano si sciolse e, forse complice il vino bevuto a pranzo, si lasciò portare verso altri argomenti.

- Non è sempre stato così – le rispose quando gli fece notare l'assenza di un tocco femminile nella villa, parlando in generale. Jean ribatté d'aver conosciuto la Signora, la consorte di Lord Schmeisser: Eva Kraun, figlia del barone Franz-Ferdinand Kraun. Jean pronunciò quei nomi con il massimo rispetto e gli occhi lucidi. Divagò un poco narrando disordinatamente delle sontuose feste alla villa dove i coniugi Schmeisser erano soliti avere sempre almeno un centinaio o più di invitati.

- Poi la Signora si ammalò e morì – aggiunse curvando le spalle in avanti come se rivivesse il dolore di quella perdita – e nulla fu più lo stesso. Lord Schmeisser si chiuse sempre più in se stesso, il Signorino ebbe l'incidente e perfino la sua amata Janine se ne andò tragicamente di lì a pochi anni.

Sospirò così profondamente che Veruska ebbe la sensazione che perfino le lontane montagne turchesi avessero sospirato con lui.


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Da Luca Mannurita
Aggiunto Feb 17 '15

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