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Luca Mannurita

La ragazza sbatté la mano sul ripiano del piccolo negozio di elettrodomestici. I mille anelli e braccialetti tintinnarono insieme.

- Cazzo è questa roba? - esclamò senza curarsi di tenere bassa la voce. Tanto non c'erano altri clienti.

Dietro il bancone l'uomo dai corti capelli bianchi e grigi incurvò un sopracciglio, indifferente.

- Se non ti piace puoi anche dirlo, non è il caso di fare scene drammatiche – ribatté calmo dopo un paio di secondi di silenzio.

- Scherzi? Questa roba spacca! Ne voglio ancora!

Indicò la memoria a bastoncino che giaceva sul ripiano lì dove la mano aveva battuto. Con l'altra ricacciò indietro i lunghi capelli tinti di un vivissimo viola spezzato da sparuti ciuffi biondi. I capelli le scesero sul viso, ribelli e ingovernabili. Sbuffò loro contro da un angolo della bocca. Inclinò poi la testa da un lato per farli penzolare lontano dal viso. L'altra metà del cranio era rasata, la corta peluria rossiccia lasciava vedere la cute bianca.

- Si può fare, ma... - iniziò l'uomo dal volto rugoso segnato dall'età e da una corta barba ormai bianca. Con pollice e indice raggiunse la minuscola memoria anonima, un tipo comune e noto per la sua compatibilità e per il prezzo popolare.

- Ennò, zio! – la ragazza fu svelta come un serpente: batté di nuovo la mano inanellata sul banco proprio sulla memoria a bastoncino sottraendola all'uomo.

- Prima – aggiunse con sguardo di sfida, china verso il negoziante più basso di lei di tutta la testa – mi devi spiegare alcune cosette!

A fatica l'uomo alzò gli occhi dalla maglietta dal collo così ampio da non lasciare dubbi sulle preferenze della ragazza in fatto di abbigliamento intimo e tatuaggi. Mancante il primo, fosforescenti gli altri.

Fissò gli occhi castani e profondi di lei resi cupi e maliziosi dal sapiente uso di trucco nero. Abile e subdola, pensò smarrendosi tra ciglia lunghe e matite nere.

- Tipo?

- Tipo... come mai non c'è traccia di questa roba sulla Rete? Nemmeno M-Shatzz ci capisce un cazzo!

A sentir nominare la celeberrima IA musicale l'uomo accennò un sorriso tra le rughe. M-Shatzz sulla Rete offriva gratis un algoritmo di riconoscimento tra i più precisi e perfezionati. Era noto a tutti e frequentatissimo dai giovani. M-Shatzz aveva accumulato informazioni per anni e anni e si vociferava che il suo database di musica avesse da tempo superato lo zettabyte. La IA stessa gestiva un paio di vocaloidi rockstar da hit-parade che tenevano concerti sia in Rete che dal vivo per i pochi privilegiati che potevano assistere.

- Beh, è musica un po' particolare e... - l'uomo tentennò un poco. Sentì la sua bocca piegarsi in un sorriso aperto e soddisfatto.

- Dai zio, falla breve: quanto vuoi per altri... trenta minuti di questa meraviglia?

La ragazza offrì la memoria stretta tra i polpastrelli di indice e pollice. Innumerevoli braccialetti risuonarono.

- Questa meraviglia non si vende a minuti come la merda cui siete abituati – si sbilanciò il commerciante. La mano tesa, il palmo solcato dalle trincee scavate in una vita. Il bastoncino anonimo vi cadde sopra senza un suono.

- Quindi? - scura in volto la ragazza drizzò la testa così bruscamente che le catenelle dei piercing alle orecchie tintinnarono.

- Quindi ti carico un album intero. Di sicuro più di trenta minuti ma tu mi paghi per trenta. D'accordo?

- Andata – ribatté subito quella senza che il dubbio si fosse spento negli occhi nocciola. Non sapeva esattamente cosa il vecchio intendesse con la parola ”album”. Lo osservò ansiosa sparire nel retro. Cercò di cogliere qualcosa del segreto che l'uomo nascondeva dietro la porticina, ma tutto ciò che i suoi avidi occhi riuscirono a vedere fu un velocissimo scorcio di uno scaffale metallico ingombro di apparecchiature. Quando tornò con la memoria stretta tra le dita lei lo squadrò colma di sospetto.

- Chi mi dice che non l'hai formattata?

L'anziano sbuffò ma si vedeva il sorriso sotto la barba. Posò la memoria sul lettore e avviò la riproduzione. Dai diffusori del piccolo negozio si riversò un torrente di note infuocate, fiamme ossidriche che ricamavano un mare di metallo fuso in tempesta, violente onde modellate a viva forza dai ritmici colpi di un maglio divino. Era un inno di battaglia, una marcia imperiosa e una musica struggente al tempo stesso. La ragazza si sorprese a seguire quel ritmo con tutto il corpo. Voleva ballare: il suo corpo lo chiedeva a gran voce, il cuore voleva balzarle dal petto e il cervello era teso solo a bearsi del ritmo, attento solo di far sì che il corpo non franasse a terra. Il commerciante non ebbe cuore di interrompere la riproduzione prima che quella raggiungesse la sua naturale conclusione.

- Sei un grande! - la ragazza si slanciò entusiasta attraverso il bancone e senza nemmeno essere tanto certa di quello che stava facendo, si aggrappò al vecchio e gli stampò un cupo bacio blu sullo zigomo ossuto. Pochi istanti dopo aveva pagato e se n'era andata via, ancora ballando sulle note che le erano rimaste scolpite nella testa. Negli occhi del vecchio negoziante restava l'ombra di lei, la maglietta troppo larga e la gonna troppo corta che mostrava le lunghe gambe e i collant bucati ad arte con le proibitissime sigarette. Una piccola scintilla di liquida, luminosa felicità brillò.


- Bella, sei sicura che il posto è questo?

Lei scostò i lunghi capelli viola che le scendevano dalla metà della testa dove aveva deciso che non li avrebbe tagliati tanto spesso.

- Bello, ti ci porto a occhi chiusi.

Il giovane si guardò intorno disinvolto e finse di aggiustarsi gli occhiali neri totalmente opachi. Era massiccio e forte, le piaceva anche per quello. Le dava sicurezza. In quel momento ne aveva davvero bisogno.

- Eccolo – disse lui cingendole le spalle con un braccio pesante inguainato in similpelle nera. Aveva un odore particolare: sostanze chimiche e alcolici, deodorante dozzinale e sesso.

Lei gettò uno sguardo oltre la strada dove sapeva che avrebbe visto il loro amico Hussein. Era quasi un bravo ragazzo, solo frequentava compagnie discutibili. Era proprio in virtù di quelle poco oneste conoscenze che loro gli avevano proposto quell'affare.

- Vado – le disse Egon sfiorandole le labbra con un bacio veloce, sciogliendo l'abbraccio.

- Aspetta! - lo afferrò per il polso un attimo prima che fosse fuori tiro. Non era più sicura. Le era sembrato tutto fantastico: dopo aver acquistato la musica si era precipitata a casa di Egon per condividere con lui la gioia. Si erano fatti di gialla insieme e l'estasi della musica si era moltiplicata cento volte sull'onda della droga sintetica che stimolava tutti i sensi al tempo stesso. Avevano fatto l'amore a ritmo: era stato bellissimo, indimenticabile.

Poi Egon aveva violato il computer del negoziante per rubargli la musica. Lei gliel'aveva detto che non era lì che il vecchio la teneva, che aveva un terminale nel retro. Ma come Egon covava la segreta speranza di poter avere altra musica, subito. Da quando era uscita dal negozietto di elettrodomestici dove si era recata il giorno prima per una innocente batteria di ricambio, il suo minipad non aveva smesso di leggere e rileggere quella musica dal bastoncino di memoria. Aveva trovato strano, sospetto il metodo di vendita: la musica si acquistava ormai dalla Rete. I contenuti andavano fruiti on-line: era merce che si acquistava a minuti. Fatta la scelta i server compilavano il brano della lunghezza richiesta e lo trasmettevano. Chi ne desiderava di nuovi avrebbe dovuto pagare altri minuti.

Per il vecchio del negozio invece la musica si divideva in brani e in album la cui lunghezza non era fissa. Era rimasta spiazzata: musica fantastica ma irriconoscibile. Mai udito prima qualcosa di simile. Lei non gli aveva creduto: certa dell'onnipotenza di M-Shatzz, aveva dato un brano in pasto alla IA che però era rimasta senza risposte. Incredibile. Aveva provato a caricarla sui pantagruelici server, ma dopo una raffica di errori mai visti il caricamento era stato annullato dal server di destinazione, il totale di byte trasferiti pari a zero.

Il vecchio aveva ragione su tutto: era musica fortissima, esattamente come piaceva a lei. I suoi amici erano impazziti tutti di felicità. Non era da nessuna parte sulla Rete. Erano sulla memoria a bastoncino e lì sarebbero rimasti, protetti da un sistema anticopia davvero efficace. Il vecchio era stato onesto e quello che loro stavano per fare invece era una vera carognata.

- Tranquilla, il più è già fatto. Ci vorrà poco.

Malvolentieri aveva accolto l'idea di rubare la musica. Troppo tardi. Sia Egon che Hussein, avendo disattivato le difese del negozio e aperto le serrature elettroniche con un attacco informatico al server del palazzo, erano già criminali agli occhi della legge.

La ragazza allentò la stretta e il suo fidanzato le scivolò via dalle mani.

Ansiosa lo seguì con gli occhi mentre entrava nell'atrio affollato anche a quell'ora tarda per via dei locali h24 e di quelli aperti solo di notte. Scomparve inghiottito dalla gente e le si tuffò il cuore.

Cercò di consolarsi accendendo il suo minipad: obbediente quello le riversò direttamente negli impianti dei timpani torrenti di note fiammeggianti, stridenti come il grido di battaglia di un esercito meccanico. I ruggiti di mille carri armati in marcia, inarrestabili.

Ma l'ansia e la paura le stringevano il cuore, rendendo insapore perfino quella speziatissima prelibatezza. Stentava a decollare con le medesime note che l'avevano messa in orbita senza fallire mai il bersaglio. Una vibrazione del suo impianto mascellare spezzò definitivamente l'incantesimo.

- Corri qui subito perché questa devi proprio vederla.

La voce di Egon, un tono che non ammetteva obiezioni. La comunicazione si interruppe subito dopo l'ultima sillaba. Il fatto che lui fosse di buona famiglia e senza problemi di denaro al punto da potersi permettere un comunicatore personale non significava che avesse denaro da spendere in secondi di conversazione inutili. Ci aveva fatto l'abitudine a quelle comunicazioni essenziali, quindi non le restava altro da fare per soddisfare la sua curiosità che muoversi. E in fretta: ogni secondo trascorso in quella condizione di illegalità palese era una spina in più nelle budella.

Quasi tremava quando in mezzo alla gente che gironzolava ovunque aprì la porta del negozietto in pieno orario di chiusura e vi entrò.

Tutto sembrava diverso. Le vetrinette buie, le luci abbassate al minimo, la cassa che mostrava solo il punto decimale lampeggiante. In quella penombra le sagome dei prodotti in vendita si sommavano tra loro dando forma a nuovi, inquietanti oggetti dalle funzioni sconosciute. Le tremavano le gambe e conosceva solo una parola per definire quello stato d'animo: paura.

“Cogliona, non ci volevi nemmeno venire qui e invece eccoti... a tremare per la fifa. È quello che ti meriti” pensò spingendo la porticina bianca che conduceva al retro del negozio.

La fredda luce azzurra dei neon cadeva sugli scaffali ingombri di oggetti tutti uguali. Accatastati uno sull'altro, disposti in file ordinate e verticali tanti piccoli astucci rettangolari di pochi millimetri di spessore. Ce n'erano migliaia, erano ovunque. Quasi ogni superficie orizzontale era gremita di questi oggetti. Astucci di plastica, coloratissimi. In un angolo c'era un portatile interfacciato con alcuni apparecchi impilati l'uno sull'altro. Sul pavimento serpeggiavano misteriosi cavi neri. Lei non ci capì nulla ma non si pose alcun problema: era evidente che quello fosse lo strumento usato per caricare la memoria a bastoncino e tanto le bastava.

- Guarda qua!

Egon si volse verso di lei. Raggiante, aveva in mano uno degli astucci. Lo aprì svelandone il contenuto. Un disco argenteo, a specchio da un lato, stampato in una delle lingue proibite dall'altro. Lei incuriosita lo staccò dal supporto stringendolo per i bordi. La superficie era perfetta e istintivamente non volle sporcarla con le proprie impronte.

- Ecco perché non si trova da nessuna parte... che cazzo di supporti sono questi?

- Oh, cazzo! - escamò Hussein chinandosi ad afferrare qualcosa sotto uno scaffale. Il tono era allarmante.

- Spiegati meglio – lo esortò Egon preoccupato.

- Meglio tipo... armi?

Il ragazzo dai capelli corti e crespi si drizzò: reggeva una custodia rigida di forma insolita. Con tutta probabilità conteneva un fucile di qualche tipo, e di discrete dimensioni.

- Apri, apri!

La ragazza non condivideva affatto l'entusiasmo per le armi. A suo modo di vedere la situazione era di colpo gravemente peggiorata. Ma quando sentì le esclamazioni dei due volle vedere lo stesso di che arma si trattava.

- E questa? Che cazzo ci fa qui? - esclamò Egon.

- Ce ne sono altre... - commentò Hussein chinandosi ancora.

Egon la estrasse dalla custodia. Lucida e brillante come appena fabbricata, un'antica chitarra elettrica in perfetto stato di conservazione. Bianca e nera, bellissima nelle sue forme tonde senza alcuno spigolo ricordava una formosa fanciulla. L'amico dalla pelle olivastra aprì un'altra custodia e ne estrasse il contenuto.

- Questa è più piccola... però ha disegnate le fiamme! È anche un po' rovinata...

- Allora questo è un basso... ma con sei corde?

Specularono un poco sugli oggetti. Ce n'erano degli altri ma il retro del negozio non offriva abbastanza spazio per poter esaminare tutti quegli straordinari reperti. Fino a quel momento avevano saputo della loro esistenza da vecchissimi filmati e da brandelli di documentazione elettronica scampati alla distruzione delle ultime guerre. La musica moderna era interamente sintetica e sempre più spesso i vocaloidi, sempre più raffinati e realistici, sostituivano i cantanti.

- Ragazzi, mettiamo via tutto e andiamocene... non possiamo stare qui tutta la notte! - la ragazza aveva deciso d'un tratto d'averne avuto abbastanza. Il tono le uscì suo malgrado a metà tra il comando e la supplica. Ma ottenne il risultato voluto: i due compagni si riscossero e rimisero tutto in ordine.

- Hai ragione – disse Egon – non siamo ladri: andiamocene via.

Lei che era entrata per ultima nell'angusto retrobottega fu la prima a uscire. Aprì lesta la porticina e fece un balzo all'indietro gridando e portandosi le braccia al petto per lo spavento.

Seduto sul bancone, volto verso di loro c'era il vecchio del negozio.

Se ne stava curvo in avanti come se un peso lo stesse schiacciando, i gomiti puntati sulle cosce e le nodose mani abbandonate tra le ginocchia. Nella destra stringeva senza troppa convinzione una pistola fletcher, la canna rivolta verso il pavimento, l'indice ben lontano dal grilletto.

- Meno male che siete voi, ragazzi. Avevo paura che ci fossero dei ladri.


Il vecchio e la sua musica, sorrise mentre volava sulle ali d'acciaio di una canzone potente come un'astronave da guerra. Immaginava le lunghe canne delle armi fare fuoco nel nero dello spazio mentre boccioli di fuoco tutto intorno fiorivano per estinguersi in pochi istanti. Musica è potenza, si disse, contenta di essere tra i pochi a saperla apprezzare. Aveva buttato nel cesso tutta la gialla che le era rimasta e aveva intimato all'incredulo Egon di fare altrettanto se non voleva trovarsi subito un'altra fidanzata.

Era solo una delle decisioni che aveva preso. Un altro grande proposito che si era posta era di non giudicare mai più qualcuno dalle apparenze. Il vecchio: aveva pensato di fotterlo, di rubargli la musica sotto il naso. Aveva pensato di poterlo fare e basta, che non ci sarebbero state conseguenze. Tanto era solo un vecchio rimbambito. Se n'era pentita subito, ma l'aveva pensato. Invece il vecchio era molto in gamba. Dopo averli pizzicati in flagranza di reato nel suo retrobottega non aveva chiamato gli sbirri. Aveva aperto uno dei mini frigoriferi che aveva in vendita, acceso e pieno di birra, e aveva offerto da bere a tutti.

Avevano chiacchierato a lungo, da amici; la pistola era finita subito in un cassetto. Si erano scusati e a lui pareva andasse bene così. Avevano parlato di musica e il vecchio aveva raccontato loro molte cose interessanti. Avevano molto in comune con quell'uomo dai capelli bianchi e la barba d'argento.

Ma soprattutto avevano la stessa passione.

“Questa musica è tutto ciò di cui ho bisogno”, e cullata tra le braccia nude del suo fidanzato aumentò il volume.

Luca Mannurita

Si puntellò sulla zappa posata al suolo. Zania aveva picchiato duro per tutto il giorno, lei era in ritardo col lavoro e gli automi agricoli della cooperativa non si erano ancora visti. Il suo fisico era forte e robusto ma aveva i suoi limiti. Mentre madida di sudore riprendeva il fiato valutò con gli occhi i progressi compiuti quel giorno. I solchi non erano dritti e in diversi punti nemmeno profondi. Avrebbe dovuto ispezionarli tutti e rimediare ove necessario. Il che significava percorrere a piedi diversi kli sotto i raggi impietosi del sole e zappare di più.

Non era il lavoro a spaventarla. Stirò i muscoli irrigiditi e bevve dalla borraccia che portava appesa al cinturone degli attrezzi. Dette uno sguardo alla rassicurante sagoma della sua abitazione e, al pensiero del lungo bagno con cui avrebbe concluso la giornata, impugnata la zappa l'alzò sopra la testa e la piantò con forza nella terra.

- Grande Madre – bisbigliò a denti stretti per risparmiare il fiato – concedimi un buon raccolto... e magari anche un automa o due...

Zappò di buona lena dandosi solo brevi soste e vibrando colpi potenti, decisa a spingere l'attrezzo a una profondità sufficiente. Come spesso le succedeva, la fatica la entusiasmava: mettere alla prova la propria potenza fisica la faceva stare bene. Era orgogliosa di essere una coltivatrice: bagnare col sudore la terra, non solo in senso figurato, le dava un senso di appartenenza che la appagava tantissimo.

Un rumore lontano la fece fermare. Alzò la testa dal lavoro e drizzò la schiena muscolosa. Erano gli automi della società agricola, finalmente. Li osservò mettersi al lavoro senza indugio. Il primo cominciò lì vicino avendo giudicato il suo lavoro non sufficiente; un altro andò dritto al lato opposto del campo, quello che lei avrebbe raggiunto zappando instancabilmente solo di lì a qualche giorno. Li vide sopraggiungere coi ferri spianati: lame e dischi che avrebbero scavato e rivoltato il terreno nel modo corretto, alla giusta profondità, alla velocità migliore.

Mai troppo tardi, si disse voltando le spalle agli automi dorati, sporchi di terra e impolverati. Seliana, puoi andare a goderti l'agognato bagno, pensò soddisfatta volgendo il viso ai raggi di Zania, forti e caldi nonostante fosse ormai bassa sull'orizzonte. Si incamminò verso casa abbandonando al loro lavoro gli automi che già muggivano per lo sforzo, le luci accese e le lame affondate nel fertile terreno.

Lasciò scorrere gli occhi sulle forme tondeggianti delle tre cupole che si univano a formare la sua casa. La superficie tecnologica assorbiva la pigra luce solare per conservarla, trasformarla e restituirla a comando. Già il cielo buio si sollevava sopra l'orizzonte all'inseguimento di Zania che ostinata illuminava d'oro la campagna. Nulla si muoveva e le luci ancora non erano accese.

Proprio in quell'istante una bimba spuntò da dietro la casa. Sporca di terra fino alle ginocchia e oltre i gomiti, appena la vide cominciò a correrle incontro strillando felice “madre, madre!”. Aveva da poco superato i cinque cicli maggiori d'età ma non aveva ancora perso i tipici tratti bambineschi: le membra piene e i lineamenti tondi della fanciullezza, anche se ormai di statura era prossima ad arrivarle alla vita. Aveva di certo ereditato dalla madre la robusta costituzione e l'altezza.

Seliana allargò le braccia per accoglierla e la piccola senza frenare lo slancio le saltò al collo. Per sostenerla le mise un braccio sotto le natiche ruvide di terriccio. La bimba si aggrappò serrandosi forte ai fianchi coi talloni e Seliana la strinse al seno. Voleva farle sentire più intensamente il calore dell'affetto che le albergava nel petto e che si sprigionava tutte le volte che vedeva la piccola sorridere così.

- Madre! Sei tutta scivolosa - protestò la piccoletta pigolando con la sua acuta voce infantile. Per tutta risposta Seliana la coprì di amorevoli baci sulla testa, sulle guance e infine sul collo, soffermandosi ad assaporare con le labbra le pulsazioni dei cuoricini impazziti.

- È questo che ti ho insegnato?

Quella voce severa! Era stata preceduta dalla ben nota aura di Ezil, sorella di sangue di Seliana. Condivideva con lei gli splendidi occhi color del corallo e l'altezza, ma non certo la potenza fisica. Mentre Seliana affrontava qualsiasi lavoro a cuor leggero, Ezil si occupava della maggioranza delle faccende domestiche e dell'orto. In più badava alla piccola Juni quando la madre era nei campi. Non perdendo un'occasione per cercare di allontanarla dalla Nuova Era.

Seliana spostò lo sguardo dalla sorella che sopraggiungeva alla figlia. Quella si era scostata ma le teneva una mano sul petto, restia a interrompere il contatto fisico. Abbassò gli occhietti, intimidita.

- Su, racconta... cosa ti ha insegnato madre Ezil? - la incoraggiò con voce morbida.

La bimba accennò il broncio. Si vergognava.

- Da brava... come si saluta? - la esortò Ezil, pacata ma severa.

- Sono vostra serva, madre! - disse infine la bimba tutto d'un fiato, sbagliando l'intonazione. Era chiaro che l'aveva fatto perché spinta da Ezil e non per ragioni più sentite. Seliana non poté evitare una veloce occhiataccia alla sorella, sforzandosi di non far trasparire il suo disappunto. La figlia in braccio se ne sarebbe accorta senza dubbio.

- Che hai fatto nell'orto tutto il giorno? - la incalzò subito Seliana cambiando discorso nel tentativo di sciogliere il broncio che la piccina aveva messo. Juni si illuminò di nuovo riempendo il petto della madre di gioia e orgoglio.

- Ho visto un leymur!

- E quanto era grande? - la canzonò.

La figlioletta spalancò le braccia per indicare la dimensione massima che potesse concepire. Seliana lanciò un fugace sguardo interrogativo alla sorella che sorridente approssimava un segmento molto più modesto con le dita di una mano. I leymur erano rettili timidi e pacifici: avevano già dimostrato in passato di gradire le buone verdure faticosamente coltivate da Ezil e più volte avevano dovuto scacciarli. Il più grosso mai avvistato da lei però non era più grande di una gamba ed era fuggito a tutta velocità quando era stato scoperto a saccheggiare l'orto.

Juni si agitò, d'un tratto desiderosa di sciogliere l'abbraccio della madre. Dichiarando con entusiasmo l'intento di voler catturare un leymur corse dentro l'orto come una saetta.

- Come invidio tutta la sua energia – confessò Ezil intenerita al punto che Seliana ebbe un netto moto empatico nei suoi confronti. Per un attimo si sentì quasi una matriarca: capace di dominare emozioni e di esprimersi telepaticamente a suo piacimento. Ma sapeva bene che le capacità psi nella sua famiglia erano al lumicino.

In quel mentre il rumore di un veicolo si affiancò al monotono e lontano mugghiare degli automi della società agricola interrompendo il momento di tenerezza fra le due sorelle di sangue.

- Che seccatura questa deviazione – sbottò Ezil. Erano abituate al silenzio pressoché totale lì, in aperta campagna. A interrompere i suoni della natura c'era solo il basso ronzare degli automi e l'occasionale sorvolo di qualche velivolo militare proveniente dalla vicina base. Da diversi cicli a quella parte però la quieta strada che passava a meno di mezzo kli dall'ingresso della loro proprietà era divenuta di colpo trafficata e rumorosa a causa di lavori sull'arteria principale.

Il motore si fece più vicino rivelandosi quello di un veicolo di notevoli dimensioni. Ma a preoccupare le due sorelle di sangue fu la certezza che il veicolo era diretto lì.

Lo videro incedere maestoso lungo la strada sterrata, uscendo lentamente dall'ultima curva sollevando due ali di polvere gialla. Era enorme. Un veicolo di rappresentanza di qualche matriarcato. Aveva ruote massicce lisce al centro e col battistrada profondamente scolpito ai lati; le ruote erano montate su cerchi aerodinamici. Era già una dura prova per la loro pazienza il fatto che fosse giunto fin lì: con quelle ruote enormi, quel pesantissimo veicolo avrebbe potuto arrecar loro dei danni. Evidentemente le matriarche si sentono al di sopra anche delle buone maniere, pensò Seliana: un'onda di stizza le montava dentro. Il veicolo si fermò a pochi passi da un limite invisibile oltrepassato il quale l'invasiva presenza sarebbe divenuta un'intollerabile offesa. I portelli tardarono ad aprirsi, mossa studiata per dare tempo alle due sorelle di valutare l'aspetto del veicolo. Seliana richiamò la figlia e la tenne avanti a sé, entrambe le mani posate sulle sottili spalle di quella che irrequieta continuava a torcersi verso la madre e a fare domande.

I portelli anteriori si aprirono. Venne estesa una corta passerella che sfiorava appena il terreno polveroso e finalmente dal veicolo a ruote multiple uscì una sorella.

- Vuoi lasciar parlare me, per una volta? - sibilò Ezil appena udibile. Ardeva dal desiderio di mostrarsi degna delle inattese ospiti.

- Per la Dea, non provare ad aprire bocca se non te lo chiedo io – ringhiò di rimando Seliana a denti stretti: temeva che Ezil si sarebbe prostrata in tutto e per tutto a quelle seccatrici. Ma più di ogni altra cosa la infastiva la consapevolezza che la sorella la ritenesse inadeguata alla situazione.

- Sono vostra serva, madre.

La giovane sorella che le fronteggiava al saluto si era fermata a rispettosa distanza e le fissava inespressiva. Alle sue spalle altre sue coetanee sbarcavano dall'imponente veicolo ma senza allontanarsene.

Seliana la squadrò da capo a piedi: era certamente membro di qualche matriarcato molto importante. Non si era mai data pena di tenere a mente i tatuaggi dei matriarcati più autorevoli della zona ma quelli ostentati dalla giovane le erano del tutto nuovi. Non era di quelle parti.

Agli occhi delle due contadine la giovane era semplicemente splendida. Il fisico armonioso e perfetto, la pelle dolcemente maculata e ornata da tatuaggi finissimi e pitture corporee tra le più belle che avessero mai visto. Seliana non si curava molto della propria pelle scurita dal vigore di Zania, né badava a frivolezze come i tatuaggi. Ne aveva ben pochi: il semplice simbolo della procreazione benedetta le ornava la liscia pelle dell'inguine; con esso celebrava la nascita di Juni. Pochi semplici simboli, variazioni di quelli della dea Zaideena tatuati nelle opportune posizioni esaltavano la sua potenza fisica. Ezil era molto più attenta alla tradizione: era più tatuata della sorella maggiore e si ostinava a curare molto le proprie pitture, ma i segni che mostrava non potevano rivaleggiare nemmeno per un istante con quelli delle matriarche.

Se da un lato agli occhi della giovane le due contadine non avevano segreti, quella rimaneva un mistero imperscrutabile.

- Una visita inattesa – esordì Seliana infrangendo un paio di protocolli minori. Sentì la sorella di sangue trasalire al suo fianco ma nessun altro parve fare caso a quella piccola insolenza.

- Perdonate l'intrusione, madre. Il nostro veicolo ha un guasto al sistema di navigazione e la deviazione dalla strada principale ci ha portate fin qui. Procediamo alla cieca e tutto ciò che chiediamo sono indicazioni per raggiungere la città sicura di Anaman.

- Il vostro bel veicolo non ha problemi – le rassicurò Seliana, ma senza benevolenza né sorrisi – è la base militare qui vicino che si prende gioco dei vostri sistemi. A volte perfino gli automi agricoli risentono delle loro armi elettroniche.

Istintivamente si voltò verso le macchine che finalmente lavoravano la terra in sua vece: mugghiavano lontane, i fari accesi, indaffarate e instancabili. Avevano già lavorato un buon tratto del suo grande campo e se avessero continuato a quel ritmo avrebbe seminato il giorno dopo. Rammentò la fatica che aveva fatto per zappare qualche misero solco e un istante dopo si rese conto del proprio acre odore corporeo. Ecco che le nuove arrivate, inopportune e indesiderate, già provocavano i primi danni. Belle e profumate com'erano la stavano facendo sentire a disagio. Proprio lei che era abituata a vantarsi di faticare e sudare, lei che considerava la propria vita modesta e sincera come fonte di grande orgoglio, lei che aveva spalancato le braccia alla Nuova Era! Non poteva tradire così quel timido, tardivo segno di consapevolezza che finalmente sembrava poter scuotere e svegliare la Sorellanza intera. Pari diritti, pari doveri, fine dell'onnipotenza dei matriarcati. Questo il sogno, ancora poco condiviso, di Seliana la contadina.

- Tornate pure indietro sulla strada principale e continuate a seguirla senza mai deviare – concluse Seliana – vi porterà alla città piccola di Oushai. Lì, alla Dea piacendo, troverete un aiuto maggiore del mio.

La bella giovane parve esitare. Che avesse percepito in lei l'ardore per il lavoro? No, non lo credeva. Forse è disgustata dall'odore. O, la Dea mi perdoni, ha capito di essere poco gradita. Seliana si sforzò di chiudere il più possibile la mente pur consapevole che la giovane che stava affrontando, appartenente di certo a un matriarcato potente, avrebbe potuto spazzare via la sua misera difesa e leggerle dentro con facilità.

- La vostra gentilezza ci onora tutte, madre – Seliana riconobbe con sollievo la comune formula di commiato.

- Buona vita – rispose, restituendo come meglio poté l'aggraziato inchino che la giovane nobile le rivolse prima di tornare al veicolo dove le sue pari l'attendevano in silenzio.

- Come sono belle, madre! - cantilenò la piccola Juni tendendo le braccia verso il viso della genitrice. Seliana la issò senza sforzo e la strinse al seno. Dopo pochi istanti il veicolo delle matriarche si rimise in moto rombando cupamente e la piccola si contorse tra le braccia della madre per vederlo ripartire. Il metallo decorato finemente scintillò sotto gli ultimi raggi di Zania e sparì alla vista.

- Anch'io voglio essere come loro! - esclamò la bimbetta.

- Cosa desideri di più? - la interrogò la madre scherzosa – Essere bellissima, o essere una matriarca molto importante e avere tante cose belle come quel veicolo?

- Tutto! - rispose Juni con l'entusiasmo di cui solo i fanciulli più giovani sono capaci.

- Quando avrai avuto tutto – si intromise Ezil – che mai sarà della tua povera madre? La abbandonerai per sempre?

Incupita dalla domanda troppo adulta Juni si paralizzò, fissando su Ezil gli occhi accesi come braci. Seliana sentì bene come il tormento della difficile scelta stesse dibattendosi nella testolina della figlia, un seme troppo grande per quel vaso ancora così piccolo. Seliana fu contrariata dall'intervento della sorella e fece in modo che quella se ne accorgesse senza incertezza.

- Su, su! Manca ancora un bel po' al tempo in cui sarai anche tu cresciuta come loro.

Ma quella doveva aver ereditato dalla genitrice anche la testardaggine.

- Quanto?

- Tanto.

- Tanto quanto? - insistè la piccola carezzando i capelli della madre come faceva per farsi concedere un capriccio.

- Tantotantissimo – rispose quella scherzosa – Ora andiamo a lavarci tutte e tre insieme perché siamo coperte di terra e polvere fino agli occhi.

Camminarono fino all'abitazione che le accolse col tepore secco della stagione troppo poco piovosa. Le pareti tecnologiche conservavano gli ultimi raggi di Zania esaltando il calore che possedevano. Avrebbero fornito luce e calore a comando, alimentando i servizi offerti dalla tecnologia senza timore di esaurimento.

Fecero un lungo bagno lavandosi a vicenda e premiandosi col tocco ristoratore della spugna viva. La placida creatura con le proprie secrezioni curò la loro pelle dalle offese della furia di Zania e indusse nelle tre calma e serenità.

Mangiarono cibo stando ben attente a non esagerare in nulla per non offendere la Dea e poi, stanche per la giornata di lavoro, si ritirarono per la notte.

Seliana depose nell'alcova la piccola Juni che le si era addormentata tra le braccia poco dopo il pasto. Un sonno leggero da cui si svegliò non appena la madre l'ebbe adagiata sulle imbottiture. Si affrettò a chiuderle gli occhi appoggiandovi teneri baci, ma la piccola dispettosa si aggrappò al collo della genitrice.

- Madre – le sussurrò con voce arrochita dal sonno – devo dirti una cosa...

- Va bene, ma poi dormi senza altre discussioni.

Seliana sentì qualcosa di cupo agitarsi dentro il cuore della figlia. Doveva rassegnarsi al fatto che la piccola Juni sarebbe cresciuta e divenuta adulta. Avrebbe fatto delle scelte e, per la durezza della vita nei campi, avrebbe facilmente scelto di abbandonare la casa e la madre, ora venerata. Sarebbe tornata un giorno a bordo di un possente veicolo, mostrandosi a lei splendidamente ornata da tatuaggi finissimi e pitture deliziose? Chi poteva dirlo? Sia la volontà della Dea, concluse. Il futuro è qualcosa contro cui non si può combattere.

- Sei bellissima tantotantissimo!

Seliana sentì il petto come se stesse per scoppiare gonfio e caldo d'affetto com'era. Sentì di non essersi controllata: quando stava con la figlia non ci riusciva mai. Lesse facilmente il riflesso di tutto quel traboccante calore nella figlioletta e nella sorella Ezil che sopraggiunse subito, attratta dal bel momento.

- Adesso però dormi – cercò di sembrare severa ma dalle labbra le uscì un sussurro colmo di passione. Osservò la piccina raggomitolarsi alla ricerca della posizione migliore per il sonno: il petto quasi le doleva per la commozione.

Si ritirò subito nella sua alcova e accolse tra le braccia Ezil che le si presentò dopo pochi istanti, colma di placida gioia e splendente. Un momento così bello andava vissuto fino in fondo, con la benedizione della Dea.

Luca Mannurita

- Il filtro numero due è di nuovo sporco.

Larsen quasi non sentì la comunicazione a lui rivolta. Faceva un caldo terrificante e l'aria condizionata stentava a contrastarlo. La polvere entrava a sbuffi dal portello aperto insieme al rumore del motore e al perenne cigolio dei cingoli. Il carro armato al suo comando, specializzato nelle operazioni in ambienti vasti, stava pattugliando le strade cosparse di macerie di una città ribelle recentemente bombardata dall'Aviazione. Le stazioni di sorveglianza in orbita avevano segnalato movimenti di truppe nemiche tra le rovine. Ma Larsen non era furioso solo per il fatto d'essere di pattuglia in quel claustrofobico labirinto di cemento con un tipo di carro armato senza torretta, senza nemmeno avere avuto una vaga idea delle forze avversarie che avrebbe potuto incontrare.

- Ahmed, falla finita!

Larsen tolse le dita dal laringofono: il suo compagno non dava cenno di averlo sentito. Aveva aperto il portello e sporto fuori la testa pensando di fare chissà cosa. Ma non aveva chiuso la radio e stava ascoltando la sua orrenda musica accompagnandola con ululati che il suo laringofono raccoglieva e trasmetteva a tutto l'equipaggio. Alfred se ne infischiava: per lui era facile. Ma per Larsen non lo era. Il fracasso del carro armato che si muoveva lentamente tra le macerie della città deserta rendeva indispensabile l'uso dell'impianto di comunicazione e ciò condannava il mercenario a subire.

- Alfred, spegnigli quella dannata musica – ordinò secco Larsen. Aveva sopportato abbastanza.

- Spiacente, Larsen. Stavolta ha portato con sé un dispositivo indipendente.

Larsen arricciò le labbra e si lasciò sfuggire una bestemmia. Aveva già discusso col suo artigliere africano riguardo quel comportamento irregolare. L'ultima volta aveva caricato centinaia di mega di musica nel computer del tank e usato l'impianto audio di bordo per ascoltarla. Nulla di insopportabile se il negro non avesse avuto il maledetto vizio di ululare durante l'ascolto. A sentir lui, cantava accompagnando ciò che stava ascoltando. Chiunque altro lo avrebbe detto un pazzo affetto da peritonite.

Contorcendosi sul suo sedile, cercò con una mano di raggiungere Ahmed dalla sua angusta posizione. Nonostante il carro armato fosse stato progettato inizialmente per un equipaggio di quattro persone, lo spazio all'interno era poco per due. Ahmed era recentemente rientrato da una licenza e aveva scoperto di non passare più dal portello poiché si era lasciato andare un po' troppo ai piaceri del buon cibo.

- Ahmed! - gridò ancora Larsen riuscendo a sfiorare un ginocchio del caporale. Per poter mettere la testa fuori dallo scafo il sedile era stato sollevato.

L'ululato si interruppe, con gran sollievo di Larsen.

- Dimmi, capo! - la voce del caporale Ahmed suonò forte negli auricolari del capocarro Larsen. Sembrava felice.

- Falla finita! - gridò rabbioso il mercenario.

- Va bene... - rispose il caporale con tono mesto. Larsen stava per ordinargli di tirare dentro la testa, ma lasciò stare. Pensò che con un po' di fortuna un cecchino gliel'avrebbe staccata con un colpo di Nagant.

Ma era un'ipotesi piuttosto remota: Alfred era vigile e infallibile. Se un cecchino avesse sporto la canna della sua arma nel raggio di mille metri lui se ne sarebbe accorto immediatamente e avrebbe dato l'allarme. Era il terzo e ultimo membro dell'equipaggio. Una intelligenza artificiale posta al governo del carro armato per permettere di dimezzare l'equipaggio umano. Di fatto, Alfred era il carro armato. Un mostro dal corpo costituito di leghe metalliche resistentissime, trentotto tonnellate di acciaio plastico che si muovevano su due cingoli larghi sessanta centimetri. Il treno di rotolamento era composto da otto rulli per parte, ciascuno con una robustissima sospensione indipendente. Ogni sospensione aveva diversi sensori per rilevare velocità, condizioni del terreno e molto altro. L'intero carro, dai cingoli al motore all'armamento era percorso da una rete di sensori tra i più diversi: un sistema nervoso artificiale per un cervello artificiale. Il risultato era davvero micidiale: un carro senza torretta alto al massimo due metri armato con un cannone principale da centoventi millimetri e diverse mitragliatrici. Una delle quali, quella da dodici millimetri, brandeggiabile e servoassistita con funzione antiaerea, era tra le mani di Ahmed impegnato a cantare.

Il carro armato si arrampicò guardingo su una montagna di detriti: era tutto ciò che rimaneva della metà di un edificio di otto piani crollato sulla strada che gli passava davanti. Alfred fermò i cingoli non appena fu in cima a quella collinetta di rovine.

- Contatto – comunicò subito.

Lo schermo multifunzione davanti a Larsen passò immediatamente all'infrarosso mostrando una traccia termica debolissima.

- Bersaglio morbido in direzione tre-cinque-uno, distanza ottocentoquaranta metri – declinò poi Alfred, del tutto asettico. Classificava i bersagli a seconda del livello di protezione di cui erano dotati. La categoria dei bersagli morbidi andava dai veicoli non blindati come autovetture, camion e simili fino agli esseri umani.

- Ahmed? - Larsen era di nuovo calmo e concentrato. Anche un solo uomo poteva essere una minaccia: il sistema anticarro AT-11 Spearman usato dal nemico consisteva in un tubo di polimero usa e getta contenente un missile intelligente. Lanciato tenendolo sulla spalla, la sua gittata utile andava dai due o trecento metri ai due chilometri e mezzo.

- Non aggancio nulla, capo.

Il sistema di puntamento della mitragliatrice brandeggiabile era ottico e non poteva vedere bersagli che se ne stavano nascosti. Larsen cercò di ricavare qualcosa dai sensori all'infrarosso, gli unici che segnalavano la minaccia, ma non riusciva ad andare oltre quella debole, piccola macchia. Una traccia di calore che indicava la presenza di qualcuno nascosto nell'ombra. Così debole che se il sole, che arroventava la città diroccata, avesse raggiunto quel punto con i suoi raggi l'avrebbe resa invisibile.

- Alfred non stare impalato. Avanti piano e togliamoci da qui. E cazzo, Ahmed... tira dentro la testa.

Larsen non aveva nemmeno dovuto alzare la voce. Il motore del carro armato salì immediatamente invadendo col suo rumore l'ambiente che era occupato dall'equipaggio umano. Ahmed abbassò subito il sedile e richiuse il portello. Larsen pensò che forse adesso l'aria condizionata avrebbe potuto fare il suo lavoro tranquillamente e che lui avrebbe smesso di respirare la polvere delle ossa di quella città morta.

Alfred avanzò con estrema prudenza mantenendo tutti i suoi sensori di combattimento al massimo dell'attività. Il contatto col diminuire della distanza andava facendosi più definito fino a quando fu chiaro che si trattava di qualcuno coricato a terra. Larsen tirò un sospiro di sollievo: era molto pericoloso lanciare un AT-11 stando sdraiati poiché il missile aveva bisogno di alcune decine di metri per accelerare e stabilizzarsi. Se invece si trattava di qualcuno con un fucile anticarro, il tiratore aveva già perso la sua occasione. Ormai era a tiro dei sensori più raffinati di Alfred e i proiettili a elevata penetrazione della calibro dodici tra le mani di Ahmed potevano passare attraverso i muri di mattoni come attraverso la carta.

- Scansione – ordinò Larsen quando vide il telemetro segnalare una distanza inferiore ai cinquecento metri.

Con sua grande sorpresa il bersaglio era un essere umano di piccole dimensioni, disarmato. Era un bambino.

- Abbiamo trovato uno scampato al bombardamento – disse Ahmed, sorpreso.

- Già... i nostri goblin non saranno contenti di saperlo.

Larsen pensò ai piloti dei bombardieri notturni: si vantavano in continuazione della loro bravura, dovuta alla stretta comunione tra loro e gli impressionanti velivoli che pilotavano. Non avevano IA a bordo poiché il loro stesso cervello veniva interfacciato con i sistemi dell'aereo. Vedevano con i sensori dell'aereo, volavano con i suoi motori, colpivano con le sue armi. Era come se uccidessero con le loro stesse mani. Alla base Larsen rabbrividiva quando al tramonto li vedeva alzarsi con i loro mostri neri, panciuti, ululanti. I goblin: un nomignolo molto azzeccato.

- Alfred avanti così. Ahmed, lo tieni?

- Sì capo. Non lo vedo ma so dov'è.

Alfred aveva ovviamente il pieno controllo di tutti i sistemi di puntamento e tiro. Avrebbe potuto togliere i comandi della mitragliatrice ad Ahmed e fare fuoco al posto suo. Ma di solito non ce n'era bisogno: all'artigliere piaceva da matti il rumore della calibro dodici e ogni scusa era buona per sparare qualche colpo. L'unica cosa che dava fastidio a Larsen era che anche quando sparava Ahmed gareggiava col rumore delle armi urlando soddisfatto.

L'intensificatore di immagini, un potente occhio elettronico in grado di sconfiggere l'oscurità, aveva inquadrato la zona del bersaglio: un palazzo era stato sventrato da una bomba ma il parcheggio coperto era rimasto in piedi. Probabilmente i goblin andavano di fretta il giorno che erano passati di lì “a fare il lavoro”, com'erano soliti dire. “Consegnare il pacco”, “disinfestare”, “fare il lavoro”: tutti sinonimi della medesima operazione: il bombardamento. Lì, in quel parcheggio coperto realizzato in cemento armato, probabilmente appoggiato a una parete crollata a metà c'era un bambino solo. Intorno a lui non c'era traccia di attività termica fin dove giungeva la capacità di rilevamento dei sensori di Alfred. Se si trattava di una trappola, era davvero ben preparata.

Ma quando il telemetro era ormai sceso sotto i trecento metri accadde qualcosa.

- Movimento – disse Alfred atono come sempre.

- È lui?

- Sì. Contatto visivo.

Sullo schermo Alfred mostrò ciò che le sue telecamere anteriori stavano inquadrando. Sotto il reticolo di mira che si adattava automaticamente al bersaglio era apparso un bambino. Larsen non aveva figli: subito dopo essere partito per la zona d'operazioni aveva saputo che la sua fidanzata si era messa con un altro buttando nel cesso quattro anni di convivenza con sorprendente tempismo e facilità. Aveva avuto una relazione con una carrista come lui ma era morta dopo due settimane saltando su una mina anticarro con tutto il suo cingolato antiaereo. Da allora Larsen aveva fatto una croce sulla possibilità di avere una famiglia prima della fine della guerra, se mai fosse finita. Era diventato un frequentatore del bordello della base.

Non sapeva nulla di bambini quindi ma a occhio e croce quello doveva avere circa sette anni. Gli abiti sporchi e laceri, sembrava avesse una ferita alla testa. La sua pelle scura faceva risaltare il bianco degli occhi tanto da dare al suo sguardo un aspetto inquietante, spiritato. Era inespressivo, la bocca chiusa e le labbra strette. Stava fissando il tank, non c'era ombra di dubbio. Non c'era altro da guardare in quel cimitero di cemento, rottami e macerie.

- Consiglierei di fermarci qui e di attaccare il bersaglio.

Alfred era un freddo calcolatore: anche se poter parlare lo rendeva simile a un essere umano, non lo era.

- Non è una minaccia – ribatté Larsen.

- Questa situazione non mi piace. È potenzialmente pericolosa – ribatté Alfred.

- Il massimo che il moccioso può fare è prenderci a sassate – disse Larsen aprendo per la prima volta il suo portello. Di nuovo il condizionatore d'aria salì al massimo per compensare l'ingresso di aria rovente dall'esterno.

- Hey! Dai, vieni qui! - gridò al bambino che, pur essendo uscito allo scoperto, esitava ad avvicinarsi. Larsen alzò ancora un po' il sedile e sporse anche le braccia dallo scafo. Fece cenno al bambino di avvicinarsi.

- Dai, andiamo a fare un giro!

Larsen si voltò: alla sua destra la testa di Ahmed sporgeva da dietro la mitragliatrice calibro dodici. Con un braccio faceva dei cenni per indurre il bimbo ad avvicinarsi al tank il cui motore brontolava fortemente al minino dei giri.

Forse fu la vista della pelle nera dell'artigliere, forse il bambino si era finalmente deciso, vinto dalla curiosità di vedere il carro armato da vicino. Forse per non dare l'idea di essere ansioso di salire sul mezzo corazzato, camminò con ostentata calma fino a raggiungere il fianco destro.

- Forza, aggrappati! - lo esortò Ahmed guardandolo dall'alto della sua postazione di combattimento.

Quello non se lo fece dire due volte: mise un piede chiuso dentro una scarpa rotta su un rullo di corsa e afferratosi al bordo di una placca della corazza reattiva, si arrampicò con un po' di fatica fino a raggiungere l'artigliere.

- Bravo! - disse quello aiutandolo a superare l'ultimo ostacolo. Il bimbo rimaneva ostinatamente serio, come se intendesse a tutti i costi mascherare la propria felicità per essere salito a bordo del carro armato. Larsen lo osservò: quella alla testa non era una ferita da lacerazione ma una ustione ancora viva. I capelli crespi del ragazzino dalla pelle nera erano stati bruciati, il cuoio capelluto era stato in buona parte ustionato ed era umido di siero. Forse era solo per via dei gas di scarico del motore a turbina che non sentiva l'odore che emanava il piccolino: anche gli abiti erano bruciacchiati e da quello che vedeva una delle manine era orribilmente infetta e piagata. Non seppe dire con quale coraggio Ahmed cercò di strappare un sorriso al bambino facendogli il solletico.

- Hey, cos'hai di bello qui? - disse l'artigliere dopo aver toccato il bambino. Larsen si voltò in tempo per vedere il bimbo portarsi le mani allo stomaco e muovere le dita come se cercasse qualcosa.

- Che cos'è? - ripeté Ahmed con un tono ben diverso. Larsen si allarmò.

- Missile!

L'allarme lanciato da Alfred lasciò Larsen pietrificato. Il motore ruggì altissimo e il tank saltò all'indietro senza preavviso. Strisciando il cingolo di sinistra stava iniziando una manovra evasiva. Larsen si dovette aggrappare ma picchiò lo stesso con il casco contro i periscopi che circondavano il bordo del portello.

- Dentro! - gridò verso Ahmed. Lo vide afferrare qualcosa tra gli stracci del bambino e caricare il braccio per scagliare lontano l'oggetto. Un breve sibilo appena percepibile precedette la vampa dell'accecante fiammata che avvolse tutto.


Il pilota agì sui comandi con mano esperta e l'enorme aerogrifo quadrigetto, un velivolo equipaggiato per missioni di salvataggio e recupero, si inclinò docilmente per compiere un'ampia virata. All'interno del casco il capitano poteva leggere gli strumenti e vedere una riproduzione virtuale dell'ambiente che circondava il velivolo in volo sulle macerie della città a poche centinaia di metri d'altezza. L'aerogrifo infatti era mediamente blindato e nell'abitacolo si aprivano delle strette fessure alte una decina di centimetri che consentivano di vedere solo se fuori era buio o no.

Il pilota staccò una mano dai comandi mentre il velivolo era ancora inclinato e sollevò l'impenetrabile visiera nera. Si voltò verso il suo equipaggio, gli specialisti che occupavano le tre poltrone dietro la sua. Due artiglieri e un uomo-ragno.

- Siete pronti là dietro? T meno dieci.

- Pronti, capitano. Bersaglio confermato, zona tranquilla.

- Bravi.

Il capitano Jennifer Tosco abbassò di nuovo la visiera e rientrò nel suo mondo virtuale fatto di strumenti, orizzonti artificiali e telemetria laser. Esattamente dieci secondi dopo, come previsto, sorvolò il bersaglio. L'aerogrifo era difeso da torrette armate di cannoni a canne rotanti da venti millimetri, caricati con proiettili perforanti per corazze pesanti. Difficilmente avrebbero avuto ragione di un carro armato, ma altrettanto difficilmente ne avrebbero incontrato uno. I satelliti avevano spazzolato tutta la zona per un'ora e non avevano rilevato nemmeno un topo per un raggio di duemila metri intorno al bersaglio.

- Siamo arrivati, bello. Ti portiamo via – disse il pilota alla radio.

- Che bello sentirla, capitano. Non vedo l'ora di togliermi da qui – giunse immediatamente la risposta.

- Dammi il tempo di mettermi a punto fisso e ti agganciamo.

L'aerogrifo virò strettamente eseguendo una manovra piuttosto azzardata volta a perdere tutta la velocità orizzontale. I quattro motori a getto scaricavano furiosamente gas dagli ugelli vettoriali ora orientati verticalmente per sostenere il velivolo che si avvicinò al bersaglio lentamente. Le due torrette ventrali ruotavano velocemente da una parte all'altra scandagliando con i sistemi di puntamento tutta la zona alla ricerca di una minaccia. Condotto da una mano esperta il grande velivolo si fermò proprio sopra il bersaglio in attesa, a poche decine di metri di quota. Tutto sembrava tranquillo. Polvere di cemento e cenere veniva alzata dai getti dell'aerogrifo e scagliata via con forza in tutte le direzioni. Nell'occhio del ciclone, intorno al carro armato danneggiato niente sembrava muoversi.

Poi dal ventre del velivolo cadde qualcosa. Qualcosa che a pochi metri dal suolo accese dei razzi di frenata che lo rallentarono bruscamente fin quasi ad arrestarne la caduta a mezz'aria. Il congegno, rimasto collegato al velivolo che l'aveva sganciato da diversi cavi, aprì rapidamente molteplici gambe snodate e cadde pesantemente al suolo a distanza di sicurezza. Paragonato al tank era minuscolo: in realtà era grande un po' più di uomo e pesante circa duecento chili. Come se dovesse riprendersi dal brusco atterraggio esitò a muoversi per qualche secondo. Poi saettò verso il tank e usando le sue otto gambe articolate si arrampicò con insospettabile agilità sullo scafo trascinandosi dietro i cavi che pendevano laschi dal ventre dell'aerogrifo, fermo nell'aria come un gigantesco insetto curvo.

- Allora, vuoi dirmi qualcosa? - disse il capitano Tosco, impegnata a mantenere l'aerogrifo fermo rispetto al suolo. Il computer poteva farlo per lei, ma non l'avrebbe giudicato divertente.

- Ho scingolato, mobilità ridotta al tre per cento. Poi ho perso i sensori termici di destra e la telemetria principale. La calibro dodici antiaerea è fuori uso. Credo che bisognerà revisionare la turbina: faceva rumore e l'ho spenta. Le batterie sono al sessantasette per cento.

- Sei messo peggio dell'altra volta... almeno avevi ancora i cingoli.

- Lo so, capitano. Il mio debito aumenta ancora.

Il capitano Jennifer Tosco stirò le labbra in un sorriso invisibile sotto la visiera completamente nera del casco. Chiuse per un momento il canale della radio passando alle comunicazioni interne.

- Come va, Vikkonen?

- Manca poco, capitano.

- Sbrigati... sono messi un po' male laggiù.

Il soldato specializzato Vikkonen manovrava alacremente i comandi del ragno, il robot con zampe articolate che stava agganciando i cavi d'acciaio dell'elicottero ai ganci di sollevamento del tank in avaria. Per questo era chiamato uomo-ragno. La cabina dell'aerogrifo non era molto grande e il microfono del casco era sensibile quindi si limitò a pensare ciò che avrebbe voluto rispondere al capitano.

- Ci siamo quasi, resisti – disse il pilota una volta riaperto il canale radio.

- Grazie di nuovo, capitano.

- Bersaglio agganciato e pronto per il sollevamento – disse l'uomo-ragno.

L'ultimo cavo, quello più sottile, era rimasto attaccato al dorso del robot. Si tese dapprima gradualmente e poi in fretta, dando uno strattone al robot e sollevandolo. Questi, perso il contatto fisico con lo scafo del tank ripiegò automaticamente le zampe contro il ventre e si lasciò issare a bordo. Il suo compito era finito: quattro robustissimi cavi d'acciaio erano agganciati correttamente e si tesero contemporaneamente mentre l'aerogrifo li riavvolgeva con metodo. Poi il capitano Tosco diede più manetta ai motori e i cavi di sollevamento si irrigidirono, sopportando il peso del veicolo corazzato. Questo si alzò da terra regolarmente, dondolando un po' solo quando il cingolo rotto si sfilò del tutto dai rulli di scorrimento e cadde contorcendosi a terra con un tonfo poderoso, che però si perse nel rumore assordante dei motori dell'aerogrifo.

Il capitano guadagnò quota e contemporaneamente orientò gli ugelli vettoriali dei motori in modo da cominciare a muoversi.

- Fra trenta minuti saremo sulla nostra base – comunicò il capitano una volta raggiunta la velocità di crociera massima consentita dal fardello sospeso sotto il ventre del suo velivolo.

- Di nuovo grazie, capitano.

- Non c'è di che. Vuoi dirmi cosa è successo?

- Un missile – giunse la risposta, atona, senza esitazioni – mi ha agganciato grazie a un dispositivo tracciante.

- Un tracciante? E come ti è arrivato addosso un tracciante?

- Era nascosto sotto i vestiti di un bambino. Una volta avvicinatosi è stato attivato. L'impulso ha fatto da guida al missile attraverso le mie contromisure.

- Un bambino? - si meravigliò il capitano. Nessuno poté vedere la smorfia di disgusto che le si dipinse sul volto.

- Precisamente.

- E l'equipaggio ha fatto avvicinare un bambino?

- Esatto.

- Idioti. Speriamo che il tuo prossimo equipaggio sia un po' meno sprovveduto, Alfred.

- Speriamo. Se lei potesse fare qualcosa in proposito le sarei grato.

- Ci posso provare. Ma non farmi fare promesse ora. Ti farò sapere. Ah, una cosa...

- Sì capitano?

- Chiamami pure Jenny.

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