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Mannu blog

Der erste Teil


Il treno d'ebano entrò in stazione fischiando e stridendo sulle rotaie di lucido acciaio. Si fermò in perfetta corrispondenza con la banchina dove ben pochi viaggiatori lo stavano attendendo, pazienti e ordinati. Il treno soffiò su di loro il suo alito caldo avvolgendoli in nuvole bianche puzzolenti di carbone.

Stette fermo con le porte chiuse: una muta, enigmatica sfida per i passeggeri che lo guardavano tranquilli e indolenti, ancora fermi dentro le nuvole di vapore che tardava a dissiparsi nella fresca aria del mattino. Il lungo, cupo fuso d'acciaio e vetro, studiato per la migliore resa aerodinamica sembrava riposasse, ansimante dopo una lunga corsa sfrenata.

Scattando all'unisono un coro di bocche a soffietto si aprì per tutta la lungezza del convoglio. Gradini dorati vennero estroflessi e la forza del vapore azionò meccanismi nascosti che fecero apparire corrimano d'ottone lucidissimo con pomoli decorati da motivi a foglie d'acanto.

Senza fretta pochi viaggiatori fecero la loro comparsa sul gradino più alto. Come un quadro impressionista che si animasse all'improvviso le ampie pennellate bianche di vapore si punteggiarono di verticali tratti neri: abiti da viaggio con code e gonne lunghe fino alla caviglia, borse e ombrelli, piccole valigie, eleganti cappelli a cilindro e velette nere. Passeggeri scesero dai gradini dorati, altri dalla banchina salirono scomparendo nel ventre del treno in attesa.

Un signore ben vestito, alto e slanciato nel suo bel pastrano scuro, con pochi passi colmò la distanza che lo separava dalla scaletta più vicina. Si faceva precedere dal silenzioso e lieve tocco del suo bastone da passeggio, nero con un pomo d'argento lucido stretto nel pugno guantato. Il bastone si sollevò per posarsi sul gradino più basso ma con un gesto fluido ed elegante fu richiamato. L'uomo in segno di rispetto chinò il viso ornato da una barba scura e ben curata e si fece da parte. Facendo risuonare lievemente il metallo coi tacchi alti quattro dita, scarpe bicolori scesero i gradini fino a posarsi sulle piastrelle di ceramica sobriamente decorata. Scarpe strette e chiuse da una fila di lucidi bottoncini, palline d'argento lucido che salivano verso lo stinco e presto sparivano alla vista sotto l'orlo di una severa gonna nera. La gonna di un accollato abito da viaggio che si stringeva intorno alla vita sottile di una giovane, le fasciava aderente il torace, si apriva in ampi sbuffi pieghettati sulle spalle, si avvolgeva strettamente intorno a esili gomiti e si chiudeva rigido fino all'ultimo nero bottone intorno al collo. Sobri e lunghissimi guanti neri da viaggio salivano dalle sottili mani fino a infilarsi sotto le maniche del vestito, impedendo la vista di un solo centimetro di pelle. A celare il viso della giovane, sebbene solo in parte, la tesa di un cappellino da viaggio nero ornato di piume anch'esse nere, e la veletta di pizzo lavorato finemente che da essa pendeva accuratamente disposta.

- Benvenuta a Kräaftenburg, fräulein. E perdonate l'impudenza, se potete – disse il gentiluomo ancora leggermente inchinato, sollevando di un palmo il cappello a cilindro come esigeva l'etichetta.

- Bentrovato, mein herr. E facciate buon viaggio – rispose quella altrettanto cortesemente, solo l'ombra di un sorriso sulle labbra del più tenue corallo rosa.

La giovane fece qualche passo per allontanarsi dal treno. Era stata tra gli ultimi a scendere, riluttante ad abbandonare le lussuose comodità della carrozza. Morbidi velluti, imbottiture comode, ottoni lucidissimi, personale preparato e cortese, pochissimi ma squisiti compagni di viaggio abili a comprendere quando desiderava la compagnia di una brillante conversazione e quando la pace e la tranquillità che solo la solitudine di un comparto vuoto e il placido dondolio del treno potevano regalare.

Aggrappata al manico della sua borsa da viaggio con due mani stette un poco a guardarsi intorno. Era giunta a destinazione. La stazione ferroviaria di Kräaftenburg era grande anche se non poteva affatto rivaleggiare con altre ben più estese come Berlino Ostbahnhof e Monaco Carl Gustav VIII Hauptbahnhof. Aveva ben altri pregi: il caos, il rumore, la puzza soffocante, le migliaia di passeggeri in perenne movimento sui marciapiedi tra le decine di binari, il vociare, le urla degli ambulanti, gli ordini dei capotreni, le chiamate dagli altoparlanti che gracchiavano parole e numeri distorti al punto da essere a stento comprensibili in quel marasma. Tutto ciò era assente lì a Kräaftenburg Hbf.

Proprio mentre un lontano treno merci le scorreva davanti agli occhi stregati dalla malìa del potere della ruota e del vapore, apparvero le carrozze di coda che aperte mostravano il massiccio carico d'acciaio che rendeva Kräaftenburg degna di avere uno scalo merci. Enormi semilavorati di acciaio, parti di turbine a vapore che una volta assemblate avrebbero prodotto energia elettrica. Le riconobbe, sebbene smontate, dalla loro caratteristica forma a conchiglia nautilo. La radice dei suoi studi era profondamente umanista e poco si intendeva di tecnologia, ma anche un bimbo avrebbe riconosciuto le pale di una turbina. Era nata nell'era del carbone e del vapore, dell'energia elettrica e dell'acciaio speciale. Sulle spalle di questi giganti l'uomo procedeva a grandi balzi verso un futuro che non poteva essere che ricco e luminoso.

A quel pensiero una punta di amarezza la morse nel petto, vicino al cuore. Per potersi guadagnare da vivere in quel mondo di potenti macchine che avrebbero fatto grande l'uomo era stata costretta ad abbandonare gli studi, la casa dei genitori e la sua città per cercare un lavoro come domestica accompagnatrice. Mestiere non privo di un certo non so che di nobile, le aveva detto il tutore dell'istituto alberghiero che l'aveva preparata, ma quel non so che lei non l'aveva ancora trovato. E ciò che le restava era tutt'altro che ricco e luminoso.

Si diresse verso l'uscita della silenziosa stazione lasciandosi alle spalle il lungo fuso d'ebano sbuffante vapore e migliaia di metri di rotaie d'acciaio che scintillavano sotto il sole incrociandosi parallele all'infinito.

Kräaftenburg le cadde addosso, calda e rumorosa. Il sole era ormai sopra i tetti e l'abbagliava, schiaffeggiandola in viso coi suoi raggi impudenti. Se non avesse avuto cappellino e veletta, sarebbe rimasta accecata per ben più di qualche istante. Mentre i suoi occhi si adattavano, le sue orecchie dovettero sostenere l'assalto del rumore di una città dove l'industria pesante sfamava più della metà della popolazione. Motori elettrici gemevano, caldaie a vapore sibilavano, dai capannoni e dalle fabbriche si alzavano i ruggiti dei macchinari pesanti che sagomavano il metallo piegandolo alla volontà dell'uomo. Dopo il fresco dell'atrio della stazione gli sbuffi di calore soffocante prodotti dai veicoli le parevano insopportabili. A una vicina stazione di rifornimento l'acqua scrosciava con fragore da un tubo grande come una grondaia dentro il serbatoio di un camion col telone. Un arrotino ombrellaio passò col suo carretto a pedali dove la mola a vapore sbuffava in folle. Gettò il suo richiamo senza smettere di pedalare e di guardarsi intorno alla ricerca di clienti. Il profilo della città era spezzato dai tetti dentellati delle fabbriche e dalle ciminiere di mattoni rossi terminanti con anelli dipinti di bianco e rosso. Un operaio si stava arrampicando su una di queste grazie a una scala a spirale che la percorreva fino alla cima eruttante fumo grigio.

Cercò il posteggio delle auto pubbliche: doveva per forza essercene uno nelle vicinanze della stazione.

Fu molto sorpresa di trovare al posteggio un'auto elettrica. Si avvicinò all'uomo appoggiato alla portiera della bella auto blu che attendeva silenziosa e luccicante nella luce del mattino.

- Buongiorno – salutò lei com'era buona educazione fare – quanto costa una corsa?

- Buongiorno... dipende da dove la bella signorina vuole andare.

- Alla Villa Schmeisser – rispose quella seria e decisa.

Il conducente alzò prima un sopracciglio e poi l'altro.

- Sicura?

- Certo. Forse non è raggiungibile?

- Affatto, è raggiungibile... - tentennò l'autista. Era una persona semplice: indossava abiti di panno marrone e blu, semplici e puliti.

- È troppo costoso? - lo incalzò lei. La sua borsa da viaggio stava cominciando a darle noia per via del peso: voleva concludere.

- Ma cosa sono cinque demark per un viaggio a bordo di questo gioiello della meccanica? - esclamò l'autista suscitando ironici commenti da parte dei colleghi come lui in attesa di clienti.

La giovane ci pensò per qualche secondo e poi pagò all'autista la cifra richiesta.

- A bordo! - esclamò quello facendo tintinnare le monete nella tasca della giacca marrone.

L'auto era forse anche un gioiello della meccanica: certo pur non potendo competere in comodità col treno da cui era appena scesa, era discretamente accogliente e confortevole. I finestrini erano ampi e l'abitacolo ben fatto al punto che poteva osservare bene tutto ciò che desiderava.

Presto vide il cielo striarsi di nero, le belle case sostituite da lunghi muri di mattoni grigi e rossi, fughe di cemento interrotte da finestre con telai a scacchi, da grandissimi cancelli di ferro che a intervalli vomitavano nella strada giganti dalle molte ruote carichi di materie prime o prodotti lavorati nelle fabbriche.

Il conducente cominciò a ciarlare.

- Il nostro è un bel viaggetto, oggi... fino a Villa Schmeisser! Non capita tutti i giorni!

A quelle parole l'attenzione della giovane si destò. Del torrente di parole che fluiva verso il sedile posteriore quelle erano di certo degne di un piccolo approfondimento.

- Come sarebbe?

- Sarebbe che non capita spesso di portare qualcuno fin lassù.

- Lord Schmeisser ha forse un'auto privata? - volle sapere lei. Che esagerazione sarebbe, pensò. Il conducente rise di cuore.

- Un'auto privata... Ach! - esclamò ancora ridendo – Un'auto privata! Un autista tutto per lui, pagato solo per guidare una delle tre vetture con le quali si reca qui in città! Ecco cos'ha!

La ragazza si sbalordì, ma fu brava a controllarsi.

- Decisamente benestante – osò dire. Il conducente continuava a ridacchiare e la cosa la stava infastidendo.

- Guardi fuori, bella signorina... la vede quella grande “S” bianca sui muri?

Non ci aveva fatto caso. Effettivamente l'uomo aveva ragione: c'era un grande monogramma su moltissimi muri, su recinzioni, sulle pareti e sui tetti inclinati dei capannoni, ovunque. Sorpassarono tre camion dalle sponde di legno sulle quali campeggiava il medesimo simbolo: una grande esse bianca. Schmeisser.

- Esatto – le rispose quando esternò la sua intuizione – proprio lui. Lord Schmeisser. Camion, capannoni, fabbriche... tutta roba sua. Più di metà delle attività produttive di Kräaftenburg appartengono a lui. Metà di Kräaftenburg è di Lord Schmeisser e l'altra metà... beh, l'altra metà – il tono del conducente si fece d'un tratto molto meno ilare – lavora per lui.

Der zweite Teil


A questo non era preparata.

Era una villa dalle dimensioni impressionanti.

Le pareti erano del color della crema e il tetto era nero d'ardesia, cosparso di cento comignoli. Le finestre erano tutte alte e decorate con archi e timpani, alcune avevano terrazzi fioriti. Era circondata da un giardino così grande da digradare assecondando la pendenza della collina in cima alla quale lo smisurato edificio era stato costruito. Ma soprattutto a colpire l'attenzione di Veruska fu che la villa aveva almeno tre piani ed era molto, molto estesa. Abbagliata dal lusso sfrenato Veruska a stento si rese conto di dover scendere dalla macchina. Passò sotto gli occhi critici e severi dell'autista in divisa che teneva lo sportello aperto per lei, ma se ne rese conto appena. Era come entrare in una bomboniera gigante. Era tutto molto bello: dalla ghiaia chiara che le scricchiolava sotto le suole alle siepi tosate con geometrica, maniacale attenzione, alla pietra pallida che costituiva la grande scalinata curva che portava all'ingresso principale. La villa non incombeva opprimente ma anzi sembrava invitasse all'esplorazione. Chissà cos'altro mi attende, pensò costringendosi a prestare attenzione agli scalini.

Sulla soglia dell'atrio, visibile attraverso uno dei due battenti della massiccia porta di legno e ferro schiusa di poco, l'attendeva una delle donne più asciutte e severe che avesse mai visto. Doveva essere la signora Besen.

I capelli grigi raccolti sulla nuca in una crocchia perfetta, la faccia rugosa che sembrava non aver mai sorriso in vita sua, gli occhi duri come due sfere di metallo scuro: frau Besen sembrava attendere qualcuno da rimproverare e Veruska si sentì certa che quel qualcuno era lei.

- Veruska Meinhertz, recentemente diplomatasi domestica... buone referenze, ma davvero risicate. Ventun anni, mezza russa da parte di madre... se crede che i suoi occhi azzurri, i capelli biondi e il nome esotico possano contare qualcosa al servizio di Lord Schmeisser, ha sbagliato i suoi conti.

Purtroppo era con lei che avrebbe dovuto lavorare oltre che con l'altro spocchioso maggiordomo, il signor Hirsch, che occhieggiava alle spalle della signora Besen.

- Vedremo di cosa sarà capace, fräulein.

Ciò detto si voltò e sparì nella penombra.

Veruska la seguì, il cuore che le martellava nel petto per l'emozione.


Forse dopotutto frau Besen aveva avuto ragione.

Erano passate tre settimane e la vita a Villa Schmeisser si era rivelata tutt'altro che entusiasmante.

Le due cameriere con cui aveva cominciato a lavorare da subito, Inga e Karin, si erano rivelate presto due scansafatiche. Dal momento che piegare la testa e subire non era nell'indole di Veruska, il momento del conflitto era giunto inevitabile. Inga, la più velenosa delle due, da villana quale s'era subito dimostrata era passata dal bisticciare a parole al muovere le mani. L'aveva anche minacciata con un coltello a scatto, sbucato da chissà dove. Spaventata, Veruska era corsa dal signor Hirsch con in mano i due pezzi della lama di cui era avventurosamente riuscita a scoprire il nascondiglio. L'aveva spezzata sotto il tacco. L'aggressiva cameriera era stata licenziata in tronco e scortata fino in città. Non ne aveva saputo più nulla.

Purtroppo l'unico risultato pratico era che da quel giorno si era trovata costretta a lavorare spalla a spalla con una nemica giurata, Karin, e la medesima quantità di lavoro da suddividere in due anziché tre.

Arrivava alla sera così stanca da non avere la forza nemmeno di leggere il libro che suo padre le aveva regalato per il viaggio. Si alzava la mattina alle prime luci dell'alba. Spesso terminava gli ultimi lavori alla luce delle lampade elettriche che erano installate perfino nell'alloggio della servitù.

In tre settimane non era riuscita a vedere tutte le stanze della villa, a visitare per intero il parco che la circondava né ad andare almeno una volta in città.


Quella mattina nere nubi si erano rincorse nel cielo e un freddo vento teso aveva sferzato la cima della collina facendo sbattere le imposte di tutta Villa Schmeisser. Veruska temette il temporale, la mancanza di corrente e il buio. Il temporale ci fu e con esso un violento acquazzone, ma solo nel pomeriggio. Per l'ora di cena era già tutto finito e la fresca serata era sì umida, ma così bella e silenziosa che Veruska decise di fare quattro passi fuori prima di andare a coricarsi. Per non fare incontri sgraditi uscì da una delle porte di servizio e si limitò a pochi passi lungo la parete esterna della villa. Se ne stette lì a respirare l'aria fresca profumata di terra bagnata, a guardare le nuvole buie che mostravano ampi strappi stellati e, per osservarle meglio, si scelse un punto dove le lampade che rischiaravano il giardino stentavano ad arrivare con la loro luce tenue.

Proprio mentre fantasticava a naso all'insù sulla fetta di cielo nero trapunto di stelle visibile in quel momento, le luci da giardino tentennarono, minacciarono di spegnersi un paio di volte per poi tornare a brillare. Lontano si udirono gemiti elettrici e tonfi meccanici, macchinari pesanti che venivano avviati. Aveva già sentito rumori come quelli una volta uscita dalla stazione ferroviaria di Kräaftenburg. Le sembravano trascorsi cento anni.

Tese l'orecchio: non si sentiva più nulla. Stette in ascolto fino a dubitare d'aver udito davvero qualcosa. Perfino il ricordo d'aver visto le luci tremolare per un attimo si stava già sbiadendo. Si stropicciò gli occhi e sbadigliò compostamente com'era stata educata a fare sempre, anche trovandosi da sola. Ancora rumori meccanici, ma non così lontani: la città era troppo distante e a quell'ora erano ben poche le fabbriche attive. La fonte del rumore era decisamente più vicina.

Veruska, con la pelle accapponata e un po' d'ansia che le gravava lievemente sul cuore, rientrò e si coricò.


- Eccomi, signor Hirsch.

La mano del maggiordomo si fermò sopra il campanello e si ritrasse dopo un istante di incertezza. Come se suonarlo nonostante lei fosse giunta in tempo fornisse una scusa valida per poterla rimproverare.

- Molto bene, Veruska.

Il maggiordomo assunse un'aria più spocchiosa del solito e si impettì come se ciò che stesse per dire richiedesse qualche centimetro di statura in più.

- Ti informo che sono attesi ospiti: li accoglierai e li farai accomodare nella biblioteca piccola. Ti manterrai a disposizione finché non saranno congedati.

Il signor Hirsch concluse aprendo la porta del suo piccolo studio. Con una rapida riverenza si congedò e fece esattamente ciò che il maggiordomo si aspettava da lei: corse a controllare che la biblioteca piccola fosse in perfetto ordine e che altrettanto valesse del percorso che andava da lì all'ingresso. Tutto ciò che sarebbe potuto cadere sotto gli occhi degli ospiti fu scrutato con attenzione, spolverato e lucidato. Veruska aveva appena finito quando suonarono all'ingresso principale.

Guten Morgen, fräulein.

Di fronte a lei c'erano due uomini. Quello che aveva salutato teneva la bombetta sollevata dalla testa con una mano guantata, l'altro la teneva all'altezza del ventre e si limitò a un cenno del capo.

Nel tempo di una misurata riverenza Veruska li squadrò entrambi. Vestivano con pastrani grigio piombo molto simili se non addirittura identici e avevano l'aria di essere poliziotti. Uno portava la barba nera impomatata e appuntita sul mento mentre le guance erano rasate alla perfezione. L'altro ostentava una capigliatura color del legno di noce, folta e ben pettinata, mentre il viso era ornato da baffi neri lunghi fino al mento. Sembravano tutti e due oltre la trentina ma lontani dalla piena maturità maschile che lei, come sua madre le aveva inculcato, poneva a cavallo dei quaranta anni.

- Vogliate seguirmi, meine Herren.

Seguendo alla lettera le indicazioni avute Veruska li condusse nella biblioteca piccola e li fece accomodare. Si offrì di custodire i loro soprabiti nel guardaroba, ma entrambi rifiutarono cortesemente.

- Sarà questione di poco, non ci tratterremo – disse quello con la barba mefistofelica, la bombetta in mano.

Veruska si congedò da loro accennando una riverenza e si chiuse la porta alle spalle.

Il suo cuore perse un colpo.

C'era una persona che risaliva il corridoio procedendo spedito verso di lei. Una persona mai vista prima. Fu colpita dai capelli chiari tagliati a spazzola che incorniciavano un viso cupo dai lineamenti forti e squadrati. Gli occhi erano sottolineati dalle vistose borse di chi trascura il sonno e la salute per lo studio o per il lavoro. Anche la barba che ornava quel viso era chiara, molto fitta e mantenuta corta. L'uomo era nel fiore della gioventù e si muoveva grazie a una curiosa sedia a rotelle ronzante.

Le gambe, nonostante fossero celate da una coperta di lana, erano palesemente amputate sotto il ginocchio.

Mentre gli occhi di Veruska non riuscirono a staccarsi per un solo istante da quell'apparizione, lui non la degnò di uno sguardo. L'uomo aprì la porta della biblioteca piccola e vi entrò deciso.

Rimase imbambolata per qualche secondo, col cuore che faceva le capriole. Eric Schmeisser! Non poteva essere altrimenti! Nessuno le aveva mai detto nulla di lui ma la somiglianza con gli antenati i cui ritratti occhieggiavano severi in molte stanze della villa era innegabile.

Udì voci alle sue spalle. La porta della biblioteca non era chiusa bene e il tono della conversazione si era già alzato. Si riscosse: origliare il padrone di casa era motivo valido per il licenziamento.

Ma l'immagine di Eric Schmeisser non voleva uscirle dalla mente. Un'anima tormentata, una spugna gonfia di dolore. Ecco cosa aveva visto per pochi istanti. Non poteva certo far finta di nulla! Era suo dovere alleviare le sofferenze di quell'uomo, almeno quelle fisiche! Che razza di domestica potrò mai essere altrimenti, si chiese.

Veruska corse nella stanza adiacente e lasciò la porta aperta. Si acquattò contro la parete in modo da poter sentire senza essere vista da qualcuno che si trovasse a passare lungo il corridoio.

Non capiva nulla di quello che le arrivava alle orecchie: perfino la porta era imbottita per non trasmettere suoni attraverso il legno. Tese ancor di più l'orecchio cercando di catturare le parole che fuggivano proprio dalla porta dimenticata accostata. Il tono della conversazione rasentava il litigio. “Progetto”, “lavoro”, “fornitura” erano le parole pronunciate più di frequente, insieme a una gran quantità di negazioni. “No” e “non posso” erano forse quelle pronunciate dal giovane Schmeisser, una voce forte ma incrinata. Poi un improvviso scambio di battute troppo ruvido per essere un cortese e formale arrivederci, ma altrettanto breve. Veruska sentì la sedia a rotelle con le sue strane ruote disposte a triangolo ronzare nel corridoio e allontanarsi rapidamente.

Si decise ad abbandonare il suo nascondiglio appena in tempo: i due ospiti emersero dalla biblioteca. Rossi in viso, si fecero accompagnare in silenzio fino all'uscita. Ricambiarono a stento i saluti e, guadagnata la loro vettura nera che li attendeva ai piedi della gradinata, se ne andarono.


Quella settimana proseguì ricca di avvenimenti. Il giorno seguente, un martedì, si presentò alla porta la nuova cameriera. Maria: un'immigrata italiana che a parte qualche piccolo problema di pronuncia e una fastidiosa venerazione per la Beata Vergine e San Gennaro si mostrò subito un valido elemento. Piccoletta, pettoruta e robusta non si spaventava di fronte ai lavori pesanti mettendo in cattiva luce l'altra rancorosa cameriera, Karin. Maria si guadagnò le simpatie di Veruska quando affrontata Karin a muso duro il giovedì seguente, gliene disse quattro digradando da un tedesco un po' incerto all'italiano e finendo col napoletano stretto, incomprensibile ma ugualmente efficace. Karin abbassò la testa e cominciò a lavorare al punto che il signor Hirsch notò la differenza.

Il venerdì Veruska lo trascorse dividendosi faticosamente tra i suoi doveri e la perlustrazione della villa alla vana ricerca di una traccia qualsiasi di Eric Schmeisser. Venne meno la corrente elettrica dopo cena, ma fu solo per pochissimi minuti.

Domenica la servitù fu lasciata in libertà.

Veruska si sentiva troppo stanca per andare in città: prese il suo libro e si addentrò un poco nella prima parte del parco, quella più curata dai giardinieri.

Qui le siepi erano potate con geometrica maestria, le aiuole curate e fiorite, le statue delle fontanelle erano pulite e candide. Perfino i pesci rossi nelle vasche sembravano passarsela molto bene: pasciuti e vivaci, giocavano a rincorrersi guizzando di tanto in tanto in superfice.

Veruska si recò nel labirinto di basse siepi e si dedicò al suo libro lasciandosi andare all'immaginazione e a dolci fantasie.

Passi pesanti sulla ghiaia la riportarono in fretta alla realtà.

- Perdonate, magistra...

Jean, il capo dei giardinieri. Un uomo robusto, bruno come il cuoio, con una zazzera di capelli grigi e bianchi che sfuggiva da sotto il berretto verde bosco. Come sempre indossava i pantaloni da lavoro, la pettorina ben stretta con le tasche sformate dal peso degli attrezzi. In una mano teneva un candido ombrello parasole, nell'altra la pesante pietra forata atta a sostenerlo.

- Ho pensato che forse avreste gradito un po' d'ombra di tanto in tanto.

Veruska sorrise all'anziano giardiniere che la trattava con ancor più deferenza del solito. Quel titolo, poi! Dove l'aveva pescato?

- Non sono magistra di nessuno, Jean. Metta pure l'ombrello dove crede, mi sposterò io.

- Ma certo, signora.

In un battibaleno l'ombrellone fu posizionato e aperto in modo da offrire ombra fino a metà della panchina.

- Non vorrebbe sedersi un minuto, Jean? - l'uomo si bloccò lì dove le parole di Veruska l'avevano colto: già incamminato verso un nuovo lavoro.

- Dopotutto è un giorno di riposo oggi, no? È domenica – lo incoraggiò vedendolo titubante.

Jean si accomodò, goffo come un orso, a rispettosa distanza da lei.

Cercò di mettere il vecchio operaio a suo agio complimentandosi con lui per come il parco e i giardini di Villa Schmeisser erano tenuti, facendogli domande che lo invogliarono a chiacchierare di piante e fiori. Jean pian piano si sciolse e, forse complice il vino bevuto a pranzo, si lasciò portare verso altri argomenti.

- Non è sempre stato così – le rispose quando gli fece notare l'assenza di un tocco femminile nella villa, parlando in generale. Jean ribatté d'aver conosciuto la Signora, la consorte di Lord Schmeisser: Eva Kraun, figlia del barone Franz-Ferdinand Kraun. Jean pronunciò quei nomi con il massimo rispetto e gli occhi lucidi. Divagò un poco narrando disordinatamente delle sontuose feste alla villa dove i coniugi Schmeisser erano soliti avere sempre almeno un centinaio o più di invitati.

- Poi la Signora si ammalò e morì – aggiunse curvando le spalle in avanti come se rivivesse il dolore di quella perdita – e nulla fu più lo stesso. Lord Schmeisser si chiuse sempre più in se stesso, il Signorino ebbe l'incidente e perfino la sua amata Janine se ne andò tragicamente di lì a pochi anni.

Sospirò così profondamente che Veruska ebbe la sensazione che perfino le lontane montagne turchesi avessero sospirato con lui.

Der dritte Teil


Il sole era giunto poco oltre la metà della sua discesa verso le verdi colline quando Veruska decise di sgranchirsi un po' facendo una passeggiata. Si allontanò ulteriormente dalla villa esplorando il giardino e ne raggiunse il limitare. Passò sotto un arco festoso di bouganville viola. Sotto i suoi piedi il selciato bordato di ghiaia bianca si interruppe sostituito dal morbido terreno verde d'erba rigogliosa. Aboliti i geometrici confini delle siepi, sparite le fontanelle e i sentieri puliti e delimitati da piante di bordura, a Veruska parve di essersi inoltrata in uno dei boschi fatati di cui aveva letto nelle pagine del libro che ancora teneva tra le mani. Si inoltrò tra gli alberi ben tenuti esplorando tranquilla e placida, rincuorata dalla luce del sole che non aveva difficoltà a giungere fino al terreno. Di tanto in tanto si voltava indietro per controllare che si vedessero ancora le pallide mura di Villa Schmeisser.

Quasi non si accorse che il terreno cominciava a digradare e a diventare più aspro. Frulli d'ali sempre più vicini e l'erba che si faceva più alta e umida per la pioggia caduta abbondante nei giorni precedenti. Era palese che quella parte del parco fosse poco frequentata dai giardinieri e che la sua passeggiata dovesse terminare lì. Tornò sui suoi passi, o così credette di fare. Quando pensò di trovarsi in vista della villa si rese conto con spavento che non lo era affatto. Il luogo le era familiare ma la sua memoria la ingannava. Che sciocca, si rimproverò. Troppo svagata e con la testa fra le nuvole! Subito la consapevolezza di essersi smarrita le morse il petto ma non volle arrendersi. Mantenendo un buon passo cercò di ritrovare la via smarrita. Fece appello agli espedienti narrati nei libri divorati nella sua fanciullezza e che ancora prediligeva, ma la posizione del sole nel cielo rimase un enigma e no, non si era proprio ricordata di portare con sé un gran gomitolo di filo da svolgere passo per passo per poter ritrovare la via nel labirinto. A stento si rincuorò al pensiero che il mostruoso minotauro era solo un antico mito.

Il sole si abbassava a velocità sorprendente ora che la pungeva la fretta e l'ansia di rientrare. Verranno a cercarmi, pensò vedendo le ombre allungarsi sempre più, in fuga dal sole al tramonto. Con torce elettriche e chiamandomi a gran voce, si augurò vedendosi cinta d'assedio dalle prime ombre della sera che le scivolavano addosso come inchiostro.

Stanca, infreddolita, appoggiata al tronco di un albero per vincere la pendenza del terreno, Veruska giunse a un passo dallo sconforto. Ancora poco e sarebbe stato così buio tra gli alberi che a stento avrebbe potuto distinguere mani e piedi. C'erano alberi ovunque attorno a lei, fruscii spettrali tra le loro chiome. Il terrore dei pipistrelli montò improvviso dentro di lei rischiando di gettarla nel panico: non ci aveva pensato fino a quel momento.

Calma, si disse. Sono figlia di un'era moderna e i vampiri esistono solo nei libri. Si guardò intorno: nessuna luce, nessun punto di riferimento. Qualsiasi direzione era indistinguibile da un'altra. Qualcosa le volò sopra la testa facendola gemere per lo spavento come una bambina. Si chinò, le mani tra i capelli, e non poté vedere da dove erano sbucate all'improvviso le luci.

Il classico sibilo di un'auto a vapore, le luci dei fari che tagliavano veloci il buio sotto di lei, oltre gli alberi. Pochi istanti e si trovò a guardare con gioia le rosse luci di posizione, occhi brillanti e un po' diabolici che si allontanavano da lei. C'era una strada poco più sotto.

Rischiando una brutta storta a una caviglia Veruska discese in direzione della strada che non poteva vedere, ma che doveva esserci per forza. Finalmente le suole delle sue scarpe si posarono senza preavviso sull'asfalto. Alla luce delle stelle riuscì a distinguere la strada. Stanca e con le gambe indolenzite si incamminò lo stesso di buona lena. Avrebbe chiesto aiuto a un veicolo di passaggio.

Fu la luce a distrarla dai suoi propositi. La vide aumentare poco a poco al di là di una curva. Vi giunse col petto che rimbombava per i battiti del cuore esultante. Un edificio industriale di mattoni rossi: tutte le finestre erano illuminate. C'era dell'attività al suo interno, era evidente. Si sentiva un forte ronzio elettrico in alto nell'aria, qualcosa sfrigolava. Cavi elettrici, alta tensione. C'era una cabina elettrica lì vicino che alimentava i macchinari nell'edificio.

Individuò la porta nella faccia che l'edificio industriale le rivolgeva. I suoi piedi però si rifiutarono di muoversi. Le ginocchia si piegarono e tutto il corpo si chinò in avanti acquattandosi istintivamente. Nonostante il buio aveva scorto del movimento. Due figure erano già presso la porta con fare sospetto. Proprio mentre le guardava quelle entrarono nell'edificio.

Se ne stette lì inginocchiata allo scoperto, protetta solo da un velo di buio minacciato dalla luce elettrica che pioveva dalle vetrate del grande capannone. L'unico posto dove avrebbe potuto trovare aiuto e rifugio aveva ora un'aria minacciosa, inquietante. Tremava, non solo per il freddo. Non poteva certo starsene lì fuori ma nemmeno ficcare il naso in affari che non la riguardavano.

Decise che avrebbe aspettato un momento migliore. Si avvicinò: ma una volta nei pressi della porta furono le voci a farle cambiare idea.

Le riconobbe subito: erano i due misteriosi visitatori che avevano discusso col Signorino. Un'altra voce nota stava rispondendo loro, pacatamente. Eric Schmeisser, non aveva dubbi.

Veruska non seppe giustificarsi nemmeno con se stessa. Fu il suo intuito a dirle che Eric Schmeisser poteva essere in pericolo. Non esitò e aprì la porta con cautela.

- È finita, Schmeisser. Consegnerà i progetti a noi, immediatamente!

- No! Non vi impadronirete anche di questo – fu la calma risposta dell'uomo. Veruska non poteva vedere niente: un tramezzo di mattoni cementati da calce e mai intonacati le sbarrava la vista verso l'interno del capannone, ben illuminato da molteplici lampade elettriche. Il tramezzo era alto circa tre metri e non arrivava certo al soffitto; questo svettava altissimo sopra la sua testa ricco di tralicci, scale, passerelle, rotaie, condotte di scarico del vapore che si facevano strada verso il tetto e passatoie per cavi elettrici che serpeggiavano ovunque. Catene e pulegge per sollevare grandi carichi penzolavano da un carro ponte che aveva qualcosa di pesante agganciato ai verricelli più potenti. Robustissime catene triple erano in tensione ad angoli diversi, ma il tramezzo le impediva di vedere di che cosa si trattasse.

Si fece forza e si sporse di pochissimo per sbirciare.

Erano proprio i due uomini che erano stati alla villa quella settimana. Le offrivano il fianco e fronteggiavano decisi Eric Schmeisser.

Ritto in piedi.

Su gambe di acciaio e ottone.

Paralizzata dall'orrore e dalla sorpresa, non potè fare a meno di osservare quella straordinaria e spaventosa figura. Eric Schmeisser se ne stava ritto in piedi, la camicia bianca sporca di grasso e sudore, le maniche arrotolate sopra i gomiti tese intorno a massicci muscoli. Attraverso la camicia sbottonata si intuiva il petto ampio e poderoso. Sul viso stanco e lucido di sudore spiccavano profonde occhiaie scure, la barba chiara e sporca, lucidi occhi febbrili e la mascella larga e decisa. Aveva segni di nerofumo sulla fronte e gli tremavano le labbra.

Si appoggiava a una comune stampella e i moncherini delle gambe stretti nei pantaloni cuciti appositamente erano infilati in due protesi meccaniche: un intrico di molle, pistoni e tiranti che gli occhi di Veruska non riuscivano a cogliere del tutto.

- Non ci costringa ad agire, Schmeisser: non opponga resistenza. Noi rappresentiamo l'autorità del Kaiser!

- Ma non capite? Il Kaiser e tutta la nazione ricaveranno molto di più da tutto questo se verrà usato per ciò che io ho progettato. Per creare e non per distruggere!

- Adesso basta, Schmeisser! Nel nome del Kaiser August Gustav von Richter III, prendo possesso del suo progetto, del prototipo da lei costruito e di tutto ciò che si trova dentro e fuori questo edificio! Le ordino di collaborare!

Veruska vide l'uomo con la barba a punta estrarre una pistola brutta e squadrata da sotto il pastrano e spianarla contro Eric Schmeisser.

Ancora una volta fu il suo istinto a decidere per lei. Senza nemmeno sapere esattamente cosa stava facendo, vinta dall'impulso protettivo nei confronti del giovane, saltò fuori dal suo nascondiglio e si gettò a mani tese sul braccio che impugnava la pistola.

Vi fu un rapido parapiglia: Veruska era terrorizzata dalle armi e a stento riuscì a opporre resistenza. I due uomini ebbero ragione di lei in poche mosse, ma lo scompiglio da lei creato ebbe risultati sorprendenti.

- Sua Maestà Vittoria, Regina d'Inghilterra vi porta i suoi omaggi e ringrazia sentitamente!

Veruska trattenuta a terra alzò lo sguardo imitando i due agenti del Kaiser. Su una passerella prossima al soffito c'era l'autista di Lord Schmeisser, sorridente. In mano stringeva un tubo dorato: certamente si trattava di qualcosa di importante. Così importante che l'agente armato di pistola esplose contro la spia britannica tre fragorosi colpi in rapida successione. Nessuno di questi andò a segno.

- Attenzione!

Veruska ebbe le mani libere, ma non il tempo di gioire.

Era così grosso che ai suoi occhi era passato inosservato.

Un enorme automa metallico alimentato da motori elettrici e reso potente da cilindri azionati dal vapore cominciò a muoversi, prigioniero delle catene dei verricelli che lo mantenevano in posizione eretta. Aveva braccia lunghissime e gambe tozze, era irto di meccanismi di ogni genere: valvole che si aprivano e scaricavano l'eccesso di pressione, ruote dentate sporche di grasso bruno, cinghie multiple avvolte e incrociate su pulegge cui si accoppiavano nere catene di trasmissione larghe quanto una mano. Era chiaramente incompleto.

Era controllato da Eric Schmeisser, che se ne stava dietro i comandi nel torace cavo dello smisurato essere di metallo.

Tutto sommato il minotauro esiste, pensò Veruska.

Uno dei bracci avvinto dalle catene dei paranchi si alzò tra gemiti elettrici e soffi di vapore per poi calare con straordinaria e inattesa velocità. Lo strattone che diede alle catene si trasmise alle rotaie del carro ponte che si piegarono. Il pesante congegno di sollevamento si inclinò insieme alla passerella scelta dalla spia inglese come via di fuga. Per sostenersi e non cadere da quella vertiginosa altezza quello fu costretto a lasciare precipitare il cilindro di metallo che sparì alla vista tra i macchinari posati con ordine sul pavimento del capannone.

Il minotauro di Schmeisser nel frattempo si era liberato del tutto. Non era in grado di sostenersi ritto sugli arti inferiori quindi cadde in avanti, a quattro zampe. Essendo le braccia più lunghe delle tozze gambe senza ginocchia, riusciva a mantenere una posizione quasi eretta.

- Via! Tutti via! - sbraitò il giovane Eric alzando un braccio e menandolo a mò di martello contro l'agente del Kaiser che gli stava puntando contro la pistola. Quello dovette ripararsi per non perire schiacciato.

Strisciando a quattro zampe, terrorizzata dal caos e dal frastuono di metallo che cigolava, dai colpi che martellavano il pavimento di cemento e dal rumore orribile dei motori di quel minotauro meccanico, Veruska si era trovata con le spalle al muro. La paura le aveva paralizzato il cervello e strillò come un ossesso quando le rotaie del carro ponte, danneggiate irreparabilmente, cedettero di schianto sotto il peso delle attrezzature di sollevamento.

Molte volte aveva letto delle imprese del dio Thor che col suo Mjolnir era in grado di affrontare qualunque minaccia, certo del potere del tuono. Quando il coro di lamenti delle lamiere che si deformavano sofferenti e cadevano dal soffitto culminò nello schianto del carro ponte, fu come se Mjolnir si fosse abbattuto su quel capannone. Il pavimento vibrò, il tuono cancellò il grido dalle orecchie di Veruska e le rimbombò dentro polmoni, stomaco e ventre, lasciandola senza fiato. Nemmeno la pioggia di calcinacci e scheggie di mattone la indusse a togliersi da dove aveva irragionevolmente trovato rifugio, terrorizzata come un piccolo topo in trappola.

Invulnerabile, il mostro meccanico spazzò via il tramezzo di mattoni con un unico colpo del braccio sinistro. Vedere il suo riparo precedente finire in briciole con quella facilità aiutò Veruska a scuotersi.

L'aria si stava riempendo di polvere di cemento e dal soffitto continuavano a cadere briciole di mattone. Tossendo la giovane domestica sgattaiolò via. Il cemento vibrava a ogni passo del minotauro e lei non avrebbe voluto trovarsi sulla sua strada per nulla al mondo. Riuscì a rizzarsi in piedi e a rendersi conto di ciò che stava succedendo. Il mostro era lontano: si udì un colpo d'arma da fuoco, assordante. Ne vide anche la vampa: il braccio meccanico sinistro scattò subito in quella direzione ma centrò in pieno un pilastro di mattoni.

Veruska fu colta dal terrore. Il braccio si ritrasse vistosamente danneggiato, ma il pilastro aveva subito un danno più grave. Pesanti mattoni cominciarono a cadere dall'alto dove si era creata una frattura. Il massiccio sostegno stava per cedere. Il carro ponte cadendo aveva urtato il pilastro adiacente lesionandolo. Dovendo ora sostenere del peso aggiuntivo, anche quello cominciò a cedere rapidamente.

Una mano piccola e forte la afferrò per il braccio, tirandola con decisione.

Maria!

Aveva con se il tubo metallico, impolverato e acciaccato.

La trascinò tra macchinari e attrezzature, guidandola con sicurezza verso una grande porta schiusa di poco. Era lo scivolo di carico del capannone, dove i camion venivano a caricare e scaricare. Sgattaiolarono via in fretta e furia dalla porta carrabile: alle loro spalle l'intera struttura stava scricchiolando. All'interno l'instancabile minotauro si agitava nella sua furia cieca e distruttiva.

Mentre ancora correvano un tuono potente rotolò in un crescendo assordante dietro di loro. Veruska si voltò in tempo per vedere più della metà del grande edificio accartocciarsi su se stesso in un nube di polvere illuminata dalle azzurre e gialle scariche elettriche dell'alta tensione in corto circuito. Il terreno tremò, le luci si spensero.

- Peccato... in fondo erano tutti dei bravi guaglioni – sospirò Maria, già domato il fiatone per la corsa fatta.

- Il Principe di Savoia sarà contento – disse poi agitando il tubo metallico.

Veruska obbedì un'ultima volta al suo istinto. Strappò il cilindro metallico dalle mani di Maria, lo usò per colpirla in viso più forte che poté e corse via come il vento, nel buio.

Der letzte Teil


Aprì gli occhi di scatto, sobbalzando.

Si era appisolata. Si umettò le labbra disidratate. Il sole la colpiva attraverso il finestrino del treno e la veletta di pizzo del suo nuovo cappello da viaggio non la riparava granché.

Con un solo sguardo perquisì il compartimento dove si trovava. Nessun viaggiatore seduto con lei, nessun bagaglio oltre la sua borsa. Si tranquillizzò un poco.

Non voleva addormentarsi: non doveva farlo. Anche se aveva dormito poco, anche se era stanca e indolenzita in ogni punto del corpo. Non si sentiva ancora abbastanza al sicuro. Si rimproverò subito per quel pensiero sciocco. Era tutto finito invece. Non doveva temere più nessuno.

Con la memoria andò indietro ai fatti della sera prima. Rivisse tutto come guardando una pellicola troppo veloce la lotta con gli emissari di diverse superpotenze europee. Chissà se l'avevano davvero tutti scambiata per una spia dello Zar di Russia. Le si strinse il cuore al pensiero della fine di Eric, tanto da sentire dolorose lacrime affiorarle agli occhi. Oh, come avrebbe voluto che le cose fossero andate diversamente!

Ma l'edificio di mattoni era crollato seppellendo tutto sotto le macerie. Tutto tranne lei, Maria e i progetti degli arti meccanici, trafugati dalla spia britannica avendoli forse scambiati per quelli della corazza gigante.

Veruska si abbandonò contro lo schienale e si lasciò cullare dal treno che procedeva spedito.

Era fuggita coi disegni di Schmeisser. Si era rifugiata in un albergo di poche pretese a dormire. Sonni ricchi di incubi e intervallati da lunghi crisi di pianto. La mattina era andata a comprare un biglietto per il primo treno.

Non voleva più sentire parlare di Kräaftenburg, di Villa Schmeisser e di fabbriche. Ne aveva avuto abbastanza. Di una sola cosa era contenta: di essersi sbarazzata del tubo metallico, ma non dei progetti che conteneva. Le parole dell'uomo l'avevano colpita profondamente: la tecnologia del metallo, la potenza del vapore e l'energia elettrica dovevano essere unite tra loro per la creazione di opere benefiche, non per creare altre armi. Mors tua vita mea. Era ora che qualcuno dicesse basta, che questo meccanismo perverso venisse fermato.

Sì, era deciso: avrebbe fatto in modo che così fosse.

Aprì gli occhi di scatto, sobbalzando.

Si era appisolata di nuovo. Il treno correva sempre velocissimo. Il sole si era alzato e non riusciva più a raggiungerla. Le membra cantavano ancora in vivace coro il loro malcontento. C'era qualcuno nello scompartimento.

- Buongiorno, mia cara Veruska.

Il tedesco dell'uomo era quasi perfetto. Si tradì con la pronuncia del nome: era uguale a quella di sua madre. Il ricordo della sua dolce genitrice eclissò subito nella paura e nello spavento.

L'uomo la guardava sorridendo. Aveva superato abbondantemente la cinquantina e si vedevano i primi fili grigi nei capelli tagliati corti in stile militare. Aveva occhi di giaccio e il viso rasato era largo e squadrato. Indossava un completo blu scuro sopra un gilet nero dai bottoni d'argento; dal taschino pendeva la catenella dell'orologio. Un Ascot nero decorato da una spilla d'argento era portato morbidamente intorno al collo.

Veruska lo guardò bene due volte: si era tradito. Quelle mani: posate su un bastone dal pomo bianco a testa di levriero erano segnate, grandi, ruvide, forti. Mani da soldato.

- Chi siete? Che volete? Come sapete il mio nome? - Veruska soffiò quelle domande tutte d'un fiato, con lo stomaco freddo e serrato dalla paura.

- Le mie scuse, mademoiselle... il mio nome è Ivan Grimovski, capitano di artiglieria dell'esercito del Popolo. Per servirla.

Accennò un inchino col capo, ma ostentava il sorriso di un coccodrillo. Sembrava una molla compressa: pronta a scattare.

- Non ho nulla che possa interessare il suo popolo o... il suo Zar, capitano.

Il sorriso del soldato si fece un poco più caldo, gli occhi brillarono di soddisfazione.

- Vengo da una famiglia di contadini e mio padre mi ha insegnato il prezzo del lavoro e il valore del tempo. Apprezzo sempre chi sa cos'è il primo e non spreca il secondo.

Sorrise ancora e poi disse con disinvoltura sconcertante:

- Che ne dice di diecimila corone svedesi? O preferisce i franchi svizzeri?


- Il filtro numero due è di nuovo sporco.

Larsen quasi non sentì la comunicazione a lui rivolta. Faceva un caldo terrificante e l'aria condizionata stentava a contrastarlo. La polvere entrava a sbuffi dal portello aperto insieme al rumore del motore e al perenne cigolio dei cingoli. Il carro armato al suo comando, specializzato nelle operazioni in ambienti vasti, stava pattugliando le strade cosparse di macerie di una città ribelle recentemente bombardata dall'Aviazione. Le stazioni di sorveglianza in orbita avevano segnalato movimenti di truppe nemiche tra le rovine. Ma Larsen non era furioso solo per il fatto d'essere di pattuglia in quel claustrofobico labirinto di cemento con un tipo di carro armato senza torretta, senza nemmeno avere avuto una vaga idea delle forze avversarie che avrebbe potuto incontrare.

- Ahmed, falla finita!

Larsen tolse le dita dal laringofono: il suo compagno non dava cenno di averlo sentito. Aveva aperto il portello e sporto fuori la testa pensando di fare chissà cosa. Ma non aveva chiuso la radio e stava ascoltando la sua orrenda musica accompagnandola con ululati che il suo laringofono raccoglieva e trasmetteva a tutto l'equipaggio. Alfred se ne infischiava: per lui era facile. Ma per Larsen non lo era. Il fracasso del carro armato che si muoveva lentamente tra le macerie della città deserta rendeva indispensabile l'uso dell'impianto di comunicazione e ciò condannava il mercenario a subire.

- Alfred, spegnigli quella dannata musica – ordinò secco Larsen. Aveva sopportato abbastanza.

- Spiacente, Larsen. Stavolta ha portato con sé un dispositivo indipendente.

Larsen arricciò le labbra e si lasciò sfuggire una bestemmia. Aveva già discusso col suo artigliere africano riguardo quel comportamento irregolare. L'ultima volta aveva caricato centinaia di mega di musica nel computer del tank e usato l'impianto audio di bordo per ascoltarla. Nulla di insopportabile se il negro non avesse avuto il maledetto vizio di ululare durante l'ascolto. A sentir lui, cantava accompagnando ciò che stava ascoltando. Chiunque altro lo avrebbe detto un pazzo affetto da peritonite.

Contorcendosi sul suo sedile, cercò con una mano di raggiungere Ahmed dalla sua angusta posizione. Nonostante il carro armato fosse stato progettato inizialmente per un equipaggio di quattro persone, lo spazio all'interno era poco per due. Ahmed era recentemente rientrato da una licenza e aveva scoperto di non passare più dal portello poiché si era lasciato andare un po' troppo ai piaceri del buon cibo.

- Ahmed! - gridò ancora Larsen riuscendo a sfiorare un ginocchio del caporale. Per poter mettere la testa fuori dallo scafo il sedile era stato sollevato.

L'ululato si interruppe, con gran sollievo di Larsen.

- Dimmi, capo! - la voce del caporale Ahmed suonò forte negli auricolari del capocarro Larsen. Sembrava felice.

- Falla finita! - gridò rabbioso il mercenario.

- Va bene... - rispose il caporale con tono mesto. Larsen stava per ordinargli di tirare dentro la testa, ma lasciò stare. Pensò che con un po' di fortuna un cecchino gliel'avrebbe staccata con un colpo di Nagant.

Ma era un'ipotesi piuttosto remota: Alfred era vigile e infallibile. Se un cecchino avesse sporto la canna della sua arma nel raggio di mille metri lui se ne sarebbe accorto immediatamente e avrebbe dato l'allarme. Era il terzo e ultimo membro dell'equipaggio. Una intelligenza artificiale posta al governo del carro armato per permettere di dimezzare l'equipaggio umano. Di fatto, Alfred era il carro armato. Un mostro dal corpo costituito di leghe metalliche resistentissime, trentotto tonnellate di acciaio plastico che si muovevano su due cingoli larghi sessanta centimetri. Il treno di rotolamento era composto da otto rulli per parte, ciascuno con una robustissima sospensione indipendente. Ogni sospensione aveva diversi sensori per rilevare velocità, condizioni del terreno e molto altro. L'intero carro, dai cingoli al motore all'armamento era percorso da una rete di sensori tra i più diversi: un sistema nervoso artificiale per un cervello artificiale. Il risultato era davvero micidiale: un carro senza torretta alto al massimo due metri armato con un cannone principale da centoventi millimetri e diverse mitragliatrici. Una delle quali, quella da dodici millimetri, brandeggiabile e servoassistita con funzione antiaerea, era tra le mani di Ahmed impegnato a cantare.

Il carro armato si arrampicò guardingo su una montagna di detriti: era tutto ciò che rimaneva della metà di un edificio di otto piani crollato sulla strada che gli passava davanti. Alfred fermò i cingoli non appena fu in cima a quella collinetta di rovine.

- Contatto – comunicò subito.

Lo schermo multifunzione davanti a Larsen passò immediatamente all'infrarosso mostrando una traccia termica debolissima.

- Bersaglio morbido in direzione tre-cinque-uno, distanza ottocentoquaranta metri – declinò poi Alfred, del tutto asettico. Classificava i bersagli a seconda del livello di protezione di cui erano dotati. La categoria dei bersagli morbidi andava dai veicoli non blindati come autovetture, camion e simili fino agli esseri umani.

- Ahmed? - Larsen era di nuovo calmo e concentrato. Anche un solo uomo poteva essere una minaccia: il sistema anticarro AT-11 Spearman usato dal nemico consisteva in un tubo di polimero usa e getta contenente un missile intelligente. Lanciato tenendolo sulla spalla, la sua gittata utile andava dai due o trecento metri ai due chilometri e mezzo.

- Non aggancio nulla, capo.

Il sistema di puntamento della mitragliatrice brandeggiabile era ottico e non poteva vedere bersagli che se ne stavano nascosti. Larsen cercò di ricavare qualcosa dai sensori all'infrarosso, gli unici che segnalavano la minaccia, ma non riusciva ad andare oltre quella debole, piccola macchia. Una traccia di calore che indicava la presenza di qualcuno nascosto nell'ombra. Così debole che se il sole, che arroventava la città diroccata, avesse raggiunto quel punto con i suoi raggi l'avrebbe resa invisibile.

- Alfred non stare impalato. Avanti piano e togliamoci da qui. E cazzo, Ahmed... tira dentro la testa.

Larsen non aveva nemmeno dovuto alzare la voce. Il motore del carro armato salì immediatamente invadendo col suo rumore l'ambiente che era occupato dall'equipaggio umano. Ahmed abbassò subito il sedile e richiuse il portello. Larsen pensò che forse adesso l'aria condizionata avrebbe potuto fare il suo lavoro tranquillamente e che lui avrebbe smesso di respirare la polvere delle ossa di quella città morta.

Alfred avanzò con estrema prudenza mantenendo tutti i suoi sensori di combattimento al massimo dell'attività. Il contatto col diminuire della distanza andava facendosi più definito fino a quando fu chiaro che si trattava di qualcuno coricato a terra. Larsen tirò un sospiro di sollievo: era molto pericoloso lanciare un AT-11 stando sdraiati poiché il missile aveva bisogno di alcune decine di metri per accelerare e stabilizzarsi. Se invece si trattava di qualcuno con un fucile anticarro, il tiratore aveva già perso la sua occasione. Ormai era a tiro dei sensori più raffinati di Alfred e i proiettili a elevata penetrazione della calibro dodici tra le mani di Ahmed potevano passare attraverso i muri di mattoni come attraverso la carta.

- Scansione – ordinò Larsen quando vide il telemetro segnalare una distanza inferiore ai cinquecento metri.

Con sua grande sorpresa il bersaglio era un essere umano di piccole dimensioni, disarmato. Era un bambino.

- Abbiamo trovato uno scampato al bombardamento – disse Ahmed, sorpreso.

- Già... i nostri goblin non saranno contenti di saperlo.

Larsen pensò ai piloti dei bombardieri notturni: si vantavano in continuazione della loro bravura, dovuta alla stretta comunione tra loro e gli impressionanti velivoli che pilotavano. Non avevano IA a bordo poiché il loro stesso cervello veniva interfacciato con i sistemi dell'aereo. Vedevano con i sensori dell'aereo, volavano con i suoi motori, colpivano con le sue armi. Era come se uccidessero con le loro stesse mani. Alla base Larsen rabbrividiva quando al tramonto li vedeva alzarsi con i loro mostri neri, panciuti, ululanti. I goblin: un nomignolo molto azzeccato.

- Alfred avanti così. Ahmed, lo tieni?

- Sì capo. Non lo vedo ma so dov'è.

Alfred aveva ovviamente il pieno controllo di tutti i sistemi di puntamento e tiro. Avrebbe potuto togliere i comandi della mitragliatrice ad Ahmed e fare fuoco al posto suo. Ma di solito non ce n'era bisogno: all'artigliere piaceva da matti il rumore della calibro dodici e ogni scusa era buona per sparare qualche colpo. L'unica cosa che dava fastidio a Larsen era che anche quando sparava Ahmed gareggiava col rumore delle armi urlando soddisfatto.

L'intensificatore di immagini, un potente occhio elettronico in grado di sconfiggere l'oscurità, aveva inquadrato la zona del bersaglio: un palazzo era stato sventrato da una bomba ma il parcheggio coperto era rimasto in piedi. Probabilmente i goblin andavano di fretta il giorno che erano passati di lì “a fare il lavoro”, com'erano soliti dire. “Consegnare il pacco”, “disinfestare”, “fare il lavoro”: tutti sinonimi della medesima operazione: il bombardamento. Lì, in quel parcheggio coperto realizzato in cemento armato, probabilmente appoggiato a una parete crollata a metà c'era un bambino solo. Intorno a lui non c'era traccia di attività termica fin dove giungeva la capacità di rilevamento dei sensori di Alfred. Se si trattava di una trappola, era davvero ben preparata.

Ma quando il telemetro era ormai sceso sotto i trecento metri accadde qualcosa.

- Movimento – disse Alfred atono come sempre.

- È lui?

- Sì. Contatto visivo.

Sullo schermo Alfred mostrò ciò che le sue telecamere anteriori stavano inquadrando. Sotto il reticolo di mira che si adattava automaticamente al bersaglio era apparso un bambino. Larsen non aveva figli: subito dopo essere partito per la zona d'operazioni aveva saputo che la sua fidanzata si era messa con un altro buttando nel cesso quattro anni di convivenza con sorprendente tempismo e facilità. Aveva avuto una relazione con una carrista come lui ma era morta dopo due settimane saltando su una mina anticarro con tutto il suo cingolato antiaereo. Da allora Larsen aveva fatto una croce sulla possibilità di avere una famiglia prima della fine della guerra, se mai fosse finita. Era diventato un frequentatore del bordello della base.

Non sapeva nulla di bambini quindi ma a occhio e croce quello doveva avere circa sette anni. Gli abiti sporchi e laceri, sembrava avesse una ferita alla testa. La sua pelle scura faceva risaltare il bianco degli occhi tanto da dare al suo sguardo un aspetto inquietante, spiritato. Era inespressivo, la bocca chiusa e le labbra strette. Stava fissando il tank, non c'era ombra di dubbio. Non c'era altro da guardare in quel cimitero di cemento, rottami e macerie.

- Consiglierei di fermarci qui e di attaccare il bersaglio.

Alfred era un freddo calcolatore: anche se poter parlare lo rendeva simile a un essere umano, non lo era.

- Non è una minaccia – ribatté Larsen.

- Questa situazione non mi piace. È potenzialmente pericolosa – ribatté Alfred.

- Il massimo che il moccioso può fare è prenderci a sassate – disse Larsen aprendo per la prima volta il suo portello. Di nuovo il condizionatore d'aria salì al massimo per compensare l'ingresso di aria rovente dall'esterno.

- Hey! Dai, vieni qui! - gridò al bambino che, pur essendo uscito allo scoperto, esitava ad avvicinarsi. Larsen alzò ancora un po' il sedile e sporse anche le braccia dallo scafo. Fece cenno al bambino di avvicinarsi.

- Dai, andiamo a fare un giro!

Larsen si voltò: alla sua destra la testa di Ahmed sporgeva da dietro la mitragliatrice calibro dodici. Con un braccio faceva dei cenni per indurre il bimbo ad avvicinarsi al tank il cui motore brontolava fortemente al minino dei giri.

Forse fu la vista della pelle nera dell'artigliere, forse il bambino si era finalmente deciso, vinto dalla curiosità di vedere il carro armato da vicino. Forse per non dare l'idea di essere ansioso di salire sul mezzo corazzato, camminò con ostentata calma fino a raggiungere il fianco destro.

- Forza, aggrappati! - lo esortò Ahmed guardandolo dall'alto della sua postazione di combattimento.

Quello non se lo fece dire due volte: mise un piede chiuso dentro una scarpa rotta su un rullo di corsa e afferratosi al bordo di una placca della corazza reattiva, si arrampicò con un po' di fatica fino a raggiungere l'artigliere.

- Bravo! - disse quello aiutandolo a superare l'ultimo ostacolo. Il bimbo rimaneva ostinatamente serio, come se intendesse a tutti i costi mascherare la propria felicità per essere salito a bordo del carro armato. Larsen lo osservò: quella alla testa non era una ferita da lacerazione ma una ustione ancora viva. I capelli crespi del ragazzino dalla pelle nera erano stati bruciati, il cuoio capelluto era stato in buona parte ustionato ed era umido di siero. Forse era solo per via dei gas di scarico del motore a turbina che non sentiva l'odore che emanava il piccolino: anche gli abiti erano bruciacchiati e da quello che vedeva una delle manine era orribilmente infetta e piagata. Non seppe dire con quale coraggio Ahmed cercò di strappare un sorriso al bambino facendogli il solletico.

- Hey, cos'hai di bello qui? - disse l'artigliere dopo aver toccato il bambino. Larsen si voltò in tempo per vedere il bimbo portarsi le mani allo stomaco e muovere le dita come se cercasse qualcosa.

- Che cos'è? - ripeté Ahmed con un tono ben diverso. Larsen si allarmò.

- Missile!

L'allarme lanciato da Alfred lasciò Larsen pietrificato. Il motore ruggì altissimo e il tank saltò all'indietro senza preavviso. Strisciando il cingolo di sinistra stava iniziando una manovra evasiva. Larsen si dovette aggrappare ma picchiò lo stesso con il casco contro i periscopi che circondavano il bordo del portello.

- Dentro! - gridò verso Ahmed. Lo vide afferrare qualcosa tra gli stracci del bambino e caricare il braccio per scagliare lontano l'oggetto. Un breve sibilo appena percepibile precedette la vampa dell'accecante fiammata che avvolse tutto.


Il pilota agì sui comandi con mano esperta e l'enorme aerogrifo quadrigetto, un velivolo equipaggiato per missioni di salvataggio e recupero, si inclinò docilmente per compiere un'ampia virata. All'interno del casco il capitano poteva leggere gli strumenti e vedere una riproduzione virtuale dell'ambiente che circondava il velivolo in volo sulle macerie della città a poche centinaia di metri d'altezza. L'aerogrifo infatti era mediamente blindato e nell'abitacolo si aprivano delle strette fessure alte una decina di centimetri che consentivano di vedere solo se fuori era buio o no.

Il pilota staccò una mano dai comandi mentre il velivolo era ancora inclinato e sollevò l'impenetrabile visiera nera. Si voltò verso il suo equipaggio, gli specialisti che occupavano le tre poltrone dietro la sua. Due artiglieri e un uomo-ragno.

- Siete pronti là dietro? T meno dieci.

- Pronti, capitano. Bersaglio confermato, zona tranquilla.

- Bravi.

Il capitano Jennifer Tosco abbassò di nuovo la visiera e rientrò nel suo mondo virtuale fatto di strumenti, orizzonti artificiali e telemetria laser. Esattamente dieci secondi dopo, come previsto, sorvolò il bersaglio. L'aerogrifo era difeso da torrette armate di cannoni a canne rotanti da venti millimetri, caricati con proiettili perforanti per corazze pesanti. Difficilmente avrebbero avuto ragione di un carro armato, ma altrettanto difficilmente ne avrebbero incontrato uno. I satelliti avevano spazzolato tutta la zona per un'ora e non avevano rilevato nemmeno un topo per un raggio di duemila metri intorno al bersaglio.

- Siamo arrivati, bello. Ti portiamo via – disse il pilota alla radio.

- Che bello sentirla, capitano. Non vedo l'ora di togliermi da qui – giunse immediatamente la risposta.

- Dammi il tempo di mettermi a punto fisso e ti agganciamo.

L'aerogrifo virò strettamente eseguendo una manovra piuttosto azzardata volta a perdere tutta la velocità orizzontale. I quattro motori a getto scaricavano furiosamente gas dagli ugelli vettoriali ora orientati verticalmente per sostenere il velivolo che si avvicinò al bersaglio lentamente. Le due torrette ventrali ruotavano velocemente da una parte all'altra scandagliando con i sistemi di puntamento tutta la zona alla ricerca di una minaccia. Condotto da una mano esperta il grande velivolo si fermò proprio sopra il bersaglio in attesa, a poche decine di metri di quota. Tutto sembrava tranquillo. Polvere di cemento e cenere veniva alzata dai getti dell'aerogrifo e scagliata via con forza in tutte le direzioni. Nell'occhio del ciclone, intorno al carro armato danneggiato niente sembrava muoversi.

Poi dal ventre del velivolo cadde qualcosa. Qualcosa che a pochi metri dal suolo accese dei razzi di frenata che lo rallentarono bruscamente fin quasi ad arrestarne la caduta a mezz'aria. Il congegno, rimasto collegato al velivolo che l'aveva sganciato da diversi cavi, aprì rapidamente molteplici gambe snodate e cadde pesantemente al suolo a distanza di sicurezza. Paragonato al tank era minuscolo: in realtà era grande un po' più di uomo e pesante circa duecento chili. Come se dovesse riprendersi dal brusco atterraggio esitò a muoversi per qualche secondo. Poi saettò verso il tank e usando le sue otto gambe articolate si arrampicò con insospettabile agilità sullo scafo trascinandosi dietro i cavi che pendevano laschi dal ventre dell'aerogrifo, fermo nell'aria come un gigantesco insetto curvo.

- Allora, vuoi dirmi qualcosa? - disse il capitano Tosco, impegnata a mantenere l'aerogrifo fermo rispetto al suolo. Il computer poteva farlo per lei, ma non l'avrebbe giudicato divertente.

- Ho scingolato, mobilità ridotta al tre per cento. Poi ho perso i sensori termici di destra e la telemetria principale. La calibro dodici antiaerea è fuori uso. Credo che bisognerà revisionare la turbina: faceva rumore e l'ho spenta. Le batterie sono al sessantasette per cento.

- Sei messo peggio dell'altra volta... almeno avevi ancora i cingoli.

- Lo so, capitano. Il mio debito aumenta ancora.

Il capitano Jennifer Tosco stirò le labbra in un sorriso invisibile sotto la visiera completamente nera del casco. Chiuse per un momento il canale della radio passando alle comunicazioni interne.

- Come va, Vikkonen?

- Manca poco, capitano.

- Sbrigati... sono messi un po' male laggiù.

Il soldato specializzato Vikkonen manovrava alacremente i comandi del ragno, il robot con zampe articolate che stava agganciando i cavi d'acciaio dell'elicottero ai ganci di sollevamento del tank in avaria. Per questo era chiamato uomo-ragno. La cabina dell'aerogrifo non era molto grande e il microfono del casco era sensibile quindi si limitò a pensare ciò che avrebbe voluto rispondere al capitano.

- Ci siamo quasi, resisti – disse il pilota una volta riaperto il canale radio.

- Grazie di nuovo, capitano.

- Bersaglio agganciato e pronto per il sollevamento – disse l'uomo-ragno.

L'ultimo cavo, quello più sottile, era rimasto attaccato al dorso del robot. Si tese dapprima gradualmente e poi in fretta, dando uno strattone al robot e sollevandolo. Questi, perso il contatto fisico con lo scafo del tank ripiegò automaticamente le zampe contro il ventre e si lasciò issare a bordo. Il suo compito era finito: quattro robustissimi cavi d'acciaio erano agganciati correttamente e si tesero contemporaneamente mentre l'aerogrifo li riavvolgeva con metodo. Poi il capitano Tosco diede più manetta ai motori e i cavi di sollevamento si irrigidirono, sopportando il peso del veicolo corazzato. Questo si alzò da terra regolarmente, dondolando un po' solo quando il cingolo rotto si sfilò del tutto dai rulli di scorrimento e cadde contorcendosi a terra con un tonfo poderoso, che però si perse nel rumore assordante dei motori dell'aerogrifo.

Il capitano guadagnò quota e contemporaneamente orientò gli ugelli vettoriali dei motori in modo da cominciare a muoversi.

- Fra trenta minuti saremo sulla nostra base – comunicò il capitano una volta raggiunta la velocità di crociera massima consentita dal fardello sospeso sotto il ventre del suo velivolo.

- Di nuovo grazie, capitano.

- Non c'è di che. Vuoi dirmi cosa è successo?

- Un missile – giunse la risposta, atona, senza esitazioni – mi ha agganciato grazie a un dispositivo tracciante.

- Un tracciante? E come ti è arrivato addosso un tracciante?

- Era nascosto sotto i vestiti di un bambino. Una volta avvicinatosi è stato attivato. L'impulso ha fatto da guida al missile attraverso le mie contromisure.

- Un bambino? - si meravigliò il capitano. Nessuno poté vedere la smorfia di disgusto che le si dipinse sul volto.

- Precisamente.

- E l'equipaggio ha fatto avvicinare un bambino?

- Esatto.

- Idioti. Speriamo che il tuo prossimo equipaggio sia un po' meno sprovveduto, Alfred.

- Speriamo. Se lei potesse fare qualcosa in proposito le sarei grato.

- Ci posso provare. Ma non farmi fare promesse ora. Ti farò sapere. Ah, una cosa...

- Sì capitano?

- Chiamami pure Jenny.

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